Per mia madre, il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale.
Il fallimento non è la cosa peggiore, la cosa peggiore è l'indecisione, il bilico. C'è una parte di te che non riesce a lasciarti eppure non ti appartiene già più.
Non c'è niente che faccia schifo quanto il provare schifo per qualcosa.
So che resterà nella mia vita perché le coppie smettono di esistere, le persone no.
Si chiamava Francesca ma aveva deciso di cambiare il suo nome in Glenda. Esiste già una Francesca nella vita di ognuno, sosteneva.
Perdo un mucchio di tempo nella mia vita, ma odio dover aspettare.
1978. Scandì la cifra come se stesse rivelando un fatto a me ignoto.
"Non sei così giovane", disse, "perché ha deciso di abortire?"
"Perché non volevo un figlio"
"Non è mica una ragazzina", mi disse, "se non vuole un figlio, dovrebbe sapere come si fa a evitarlo"
Il cimitero dei feti. O, per usare l'eufemismo con cui viene chiamato dalle associazioni cattoliche che li gestiscono, "il giardino degli angeli". In realtà ne ignoravo l'esistenza, fino a quando ho letto un articolo sul giornale in cui una donna denunciava di averci trovato il proprio nome e cognome apposto su una croce. Inumato sotto la croce c'era il feto che aveva abortito. La donna non aveva mai dato l'autorizzazione alla sepoltura. Aveva scritto un post su Facebook per riportare l'accaduto, erano seguite altre denunce di donne che si erano ritrovate davanti la stessa scena: una croce col loro nome e cognome e la data dell' aborto. Sotto le croci c'erano i resti dei loro embrioni o feti. Non avevano mai dato l'autorizzazione o non sapevano di averlo fatto. Sembra un film dell'orrore. Invece è solo la destra italiana unita al cattolicesimo antiabortista. In effetti, due ingredienti perfetti per un film dell'orrore.
I convenevoli mi spaventano, mi fanno sentire esposta, in ritardo sulla vita.
L'assurdo disarmava il disagio.
Sono sempre stata aliena al concetto di "lasciarsi andare", per un motivo molto banale: non so dov'è che dovrei andare.
"Mi hai deluso, pensavo fossi un' artista, non una commessa della Standa".
Mi spiaceva per la delusione, però non è facile sapere come reagire se qualcuno ti accusa di non essere un' artista quando tu non hai mai pensato di esserlo.
A dire il vero ci sono un mucchio di bambini per i quali non mi sono mai ritagliata un ruolo da madrina, da zia, da sorellastra, da baby sitter o da semplice conoscente. Di solito loro nascono e io mi dileguo. Posso commuovermi per la nascita di un cucciolo di riccio, di volpino, di orso ma appena viene al mondo un bambino, di fronte ai suoi vagiti non so che fare. Mi limito ad annuire. Okay, dico. E poi sparisco.
Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio. Non c'è nessun bicchiere. Non c'è niente. Sono di fronte a un tavolino brutto e sopra il nulla. Potrebbe sparire anche il tavolino. Anzi, è già sparito.
Non mi resta l'assenza, ma la perplessità.
La morte è atroce ma l'impossibilità del lutto è disumana.
Il rapporto tra i miei genitori è sempre stato un modello: due persone che si sono amate fino alla fine. Per me è stato il modello di tutto ciò che non avrei mai voluto nella mia vita: due persone che non si rendevano felici e che sono state insieme fino alla fine.
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