martedì 17 marzo 2015

Frasi dal libro "Lettera a un bambino mai nato" di Oriana Fallaci

A chi non teme il dubbio.
A chi si chiede i perchè senza stancarsi e a costo di soffrire.
Di morire.
A chi si pone il dilemma di dare la vita o negarla.
Questo libro è dedicato da una donna per tutte le donne.


Non è paura degli altri.
Io non mi curo degli altri.
Non è paura di Dio.
Io non credo in Dio.
Non è paura del dolore. 
Io non temo il dolore. 
È paura di te,
Non sono mai stata pronta ad accoglierti, anche se ti ho molto aspettato.
Mi son sempre posta l'atroce domanda:
E se nascere non ti piacesse?
E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando:
"Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?".
La vita è una tale fatica, bambino.
È una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele.
Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via,
come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio?
Non puoi mica parlarmi.
La tua goccia di vita è soltanto un nodo di cellule appena iniziate.
Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita. 

...se ciò sia stato bene o male non so.
Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male.

 Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché?
Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito ed offeso,
perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia?
E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra.
Forse hanno ragione loro. 

Il tuo cuore è già fatto, ed è grande: in proporzione, nove volte più grande del mio.
Pompa sangue e batte regolarmente dal diciottesimo giorno: potrei buttarti via?
Che m'importa se sei incominciato per caso o per sbaglio, anche il mondo in cui ci troviamo non incominciò per caso e forse per sbaglio? 

La nostra logica è piena di contraddizioni. 
Appena affermi qualcosa, ne vedi il contrario.
E magari ti accorgi che il contrario è valido quanto ciò che affermavi.

Un uomo non resta incinto e, a proposito, dimmi: è un vantaggio o una limitazione? 
Fino a ieri mi sembrava un vantaggio, anzi un privilegio. 
Oggi mi sembra una limitazione, anzi una povertà. 
V'è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un'altra vita, nel sapersi due anziché uno. 

Essere donna è così affascinante.
È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. 
Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. 
Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. 
Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela:
quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. 
Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che urla d'essere ascoltata. 

Essere mamma non è un mestiere. 
Non è nemmeno un dovere. 
È solo un diritto fra tanti diritti.

Se nascerai uomo, ad esempio, non dovrai temere d'essere violentato nel buio di una strada. 
Non dovrai servirti di un bel viso per essere accettato al primo sguardo,
di un bel corpo per nascondere la tua intelligenza. 
Non subirai giudizi malvagi quando dormirai con chi ti piace, 
non ti sentirai dire che il peccato nacque il giorno in cui cogliesti una mela. 
Faticherai molto meno. 
Potrai batterti più comodamente per sostenere che, se Dio esistesse, potrebbe essere anche una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. 
Potrai disubbidire senza venir deriso, amare senza svegliarti una notte con la sensazione di precipitare in un pozzo, difenderti senza finire insultato. 
Naturalmente ti toccheranno altre schiavitù, altre ingiustizie:
neanche per un uomo la vita è facile, sai. 
Poiché avrai muscoli più saldi, ti chiederanno di portare fardelli più pesi, 
ti imporranno arbitrarie responsabilità.
Poiché avrai la barba, rideranno se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza. 
Poiché avrai una coda davanti, ti ordineranno di uccidere o essere ucciso alla guerra ed esigeranno la tua complicità per tramandare la tirannia che instaurarono nelle caverne. 
Eppure, o proprio per questo, essere un uomo sarà un'avventura altrettanto meravigliosa: 
un'impresa che non ti deluderà mai. 
Almeno lo spero perché, se nascerai uomo, spero che sarai un uomo come io l'ho sempre sognato: dolce coi deboli, feroce coi prepotenti, generoso con chi ti vuol bene, spietato con chi ti comanda. Infine, nemico di chiunque racconti che i Gesù sono figli del Padre e dello Spirito Santo:
non della donna che li partorì.

Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uomo non significa avere una coda davanti: significa essere una persona. 
 E anzitutto, a me, interessa che tu sia una persona. 
È una parola stupenda, la parola persona, perché non pone limiti a un uomo o a una donna, non traccia frontiere tra chi ha la coda e chi non ce l'ha.
Il cuore e il cervello non hanno sesso. 
Nemmeno il comportamento.

Non cedere mai alla viltà. 
È una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. 
Ci morde tutti,ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. 
In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. 
Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventano spavaldi dopo che il rischio è passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. 
Venire al mondo è già un rischio.

Forse dovrei tacerti per ora le brutture e le malinconie, raccontarti un mondo di innocenze e gaiezze. Ma sarebbe come attirarti in un inganno. 
Sarebbe come indurti a credere che la vita è un tappeto morbido sul quale si può camminare scalzi e non una strada di sassi, bambino. 
Sassi contro cui si inciampa, si cade, ci si ferisce. 
Sassi contro cui bisogna proteggerci con scarpe di ferro. 
E neanche questo basta perché, mentre proteggi i piedi, c'è sempre qualcuno che raccoglie una pietra per tirartela in testa. 

Nel buio che t'avvolge ignori addirittura d'esistere: 
potrei buttarti via e non sapresti mai che t'ho buttato via. 
Non avresti modo di concludere mai se ti ho fatto un torto o un regalo. 

Mi ha colto la nausea. 
Mi sono vergognata per lui. 
E ho abbassato il ricevitore pensando che un tempo lo amavo. 

Un giorno io e te dovremo discutere un poco su questa faccenda chiamata amore. 
Perché, onestamente, non ho ancora capito di cosa si tratti. 
Il mio sospetto è che si tratti di un imbroglio gigantesco, inventato per tener buona la gente e distrarla. 
Di amore parlano i preti, i cartelloni pubblicitari, i letterati, i politici, coloro che fanno all'amore, e parlando di amore, presentandolo come toccasana di ogni tragedia,
feriscono e tradiscono e ammazzano l'anima e il corpo. 
Io la odio questa parola che è ovunque e in tutte le lingue. 
Amo camminare-
Amo bere.
Amo fumare.
Amo la libertà.
Amo il mio amante.
Amo mio figlio.
Io cerco di non usarla mai, di non chiedermi nemmeno se ciò che turba la mia mente e il mio cuore è la cosa che chiamano amore. 

...fantasmi deludenti di una ricerca sempre fallita.
Fallita? 
A qualcosa servì, dopotutto:
a capire che nulla minaccia la tua libertà quanto il misterioso trasporto che una creatura prova verso un'altra creatura, ad esempio un uomo verso una donna, o una donna verso un uomo. 
Non vi sono cinghie né catene né sbarre che ti costringano a una schiavitù più cieca, a un'impotenza più disperata. 
Guai se ti regali a qualcuno in nome di quel trasporto:
serve solo a dimenticare te stesso, i tuoi diritti, la tua dignità e cioè la tua libertà. 
Come un cane che annaspa nell'acqua cerchi invano di raggiungere una riva che non esiste, la riva che ha nome Amare ed Essere Amato, e finisci neutralizzato deriso deluso. 
Nel caso migliore finisci col chiederti cosa ti spinse a buttarti nell'acqua:
lo scontento di te stesso, la speranza di trovare in un altro cosa non vedevi in te stesso?

E se toccasse a te farmi scoprire il significato di quelle cinque lettere assurde? 
Proprio a te che mi rubi a me stessa e mi succhi il sangue e mi respiri il respiro?

Ha rinverdito amarezze che credevo dimenticate, offese che credevo superate.
Quelle inflittemi dai fantasmi grazie a cui compresi che l'amore è un imbroglio.
Le ferite son chiuse, le cicatrici appena visibili, ma una telefonata così basta a farle dolorare di nuovo.
Come vecchie ossa rotte quando cambia il tempo. 

Se voglio liberarmi di te, sostengono, questo è il momento. 
Anzi il momento incomincia ora. 
In altre parole, avrei dovuto aspettare che tu diventassi un essere umano con gli occhi e le dita e la bocca per ammazzarti. 
Prima no. 
Prima eri troppo piccolo per essere individuato e strappato. 
Sono pazzi. 

Allora dimmi, tu che sai tutto: 
quando incomincia la vita? 
Dimmi, ti supplico: è davvero incominciata la tua?
Da quanto? 
Dal momento in cui la stilla di luce che chiamano spermio bucò e scisse la cellula? 
Dal momento in cui ti sbocciò un cuore e prese a pompar sangue? 
Dal momento in cui ti fiorì un cervello, un midollo spinale, e ti avviasti ad assumere una forma umana? 
Oppure quel momento deve ancora venire e sei solo un motore in fabbricazione?

Certo siamo una ben strana coppia, io e te. Tutto in te dipende da me e tutto in me dipende da te.
Però io non posso comunicare con te e tu non puoi comunicare con me.

Devo portarti a fondo perchè da grande tu sia qualcuno che non assomiglia né al prete, né alla mia amica e al suo dottor Munson, nè ai poliziotti. 
Il primo ti considera proprietà di Dio, la seconda ti considera proprietà della madre, i terzi ti considerano proprietà dello Stato. 
Non appartieni né a Dio né allo Stato né a me. 
Appartieni a te stesso e basta. 

Dopotutto sei tu che hai preso l'iniziativa ed io sbagliavo a credere d'importi una scelta. 
Tenendoti, non faccio che piegarmi al comando che mi impartisti quando s'accese la tua goccia di vita. 
Non ho scelto nulla, ho obbedito.

Quello che  provavo per lui s'è estinto in due telefonate. 
Anzi nel fatto stesso che m'abbia parlato al telefono anziché fissandomi negli occhi. 

In fondo, per certa gente, la vera colpa di un uomo e di una donna consiste nell'amarsi in un letto.

 ... i fantasmi di tutti coloro che avrebbero potuto essere e non sono stati. 

 Non ho mai capito come faccia a ridere in quel modo: 
ma penso che sia perché ha pianto molto. 
Solo chi ha pianto molto può apprezzare la vita nelle sue bellezze, e ridere bene. 
Piangere è facile, ridere è difficile.

Tu sei solo, magnificamente solo là dentro. 
La tua sola esperienza è te stesso. 
Non sarai più solo quaggiù e, se vorrai liberarti degli altri, della loro compagnia forzata, non ci riuscirai.
Io continuo a ripetere che sei prigioniero lì dentro, continuo a pensare che hai poco spazio e che d'ora innanzi starai perfino al buio: 
ma in quel buio, in quel poco spazio, 
tu sei libero come non lo sarai più in questo mondo immenso e spietato. 
Non devi chiedere permesso a nessuno, lì dentro, aiuto a nessuno: 
perché non hai accanto nessuno ed ignori cosa sia la schiavitù. 
Qui fuori, invece, avrai mille padroni.
Una recente statistica afferma che siamo già quattro miliardi. 
In quel mucchio entrerai. 
E quanto rimpiangerai il tuo sguazzare solitario nell'acqua, bambino! 

Tanto meno puoi ribellarti alla legge che per mangiare ci vuole il denaro, 
per dormire ci vuole il denaro, per camminare dentro un paio di scarpe ci vuole il denaro, 
per riscaldarsi d'inverno ci vuole il denaro, che per avere il denaro bisogna lavorare. 
Ti racconteranno un mucchio di storie sulla necessità del lavoro, 
la gioia del lavoro, la dignità del lavoro. 
Non ci credere, mai. 
Si tratta di un'altra menzogna inventata per la convenienza di chi organizzò questo mondo. 
Il lavoro è un ricatto che rimane tale anche quando ti piace. 
Lavori sempre per qualcuno, mai per te stesso. 
Lavori sempre con fatica, mai con gioia.
 E mai nel momento in cui ne avresti voglia. 
Anche se non dipendi da nessuno e coltivi il tuo pezzo di terra, 
devi zappare quando vogliono il sole e la pioggia e le stagioni. 
Anche se non ubbidisci a nessuno e il tuo lavoro è arte cioè liberazione, 
devi piegarti alle altrui esigenze o soprusi. 
Forse in un passato molto lontano, tanto lontano che se ne è smarrito il ricordo, non era così.
E lavorare era una festa, un'allegria. 
Ma esistevano poche persone a quel tempo, e potevano starsene sole.

Allora la bambina chiamò la sua mamma. 
Le disse: «Mamma, hanno buttato una donna sulla magnolia ed ha colto un fiore». 
La mamma venne, gridò che la donna era morta, e da quel giorno la bambina crebbe convinta che per cogliere un fiore una donna dovesse morire. 
Quella bambina ero io, e Dio voglia che tu non apprenda nel modo in cui l'appresi io che a vincere è sempre il più forte, il più prepotente, il meno generoso. 
Dio voglia che tu non lo capisca presto come lo appresi io, 
oltretutto convincendoti che una donna è la prima a pagare per tale realtà.
Ma io sbaglio a sperare il contrario. 
Devo augurarti di perderla presto quella verginità che si chiama infanzia, illusione. 
Devo prepararti fin d'ora a difenderti, ad essere più svelto, più forte, e buttare lui giù dal terrazzo. Specialmente se sei una donna. 

C'è sempre uno che mangia un altro o scuoia un altro per sopravvivere: 
dagli uomini ai pesci. 
Anche i pesci si mangiano fra loro: 
i più grossi inghiottiscono i più piccini.
Ed è proprio il caso che tu venga a conoscere simili orrori, 
tu che vivi e ti nutri e ti scaldi senza ammazzare nessuno?

L'uguaglianza, figlio, esiste solo dove sei tu: come la libertà. 
Nell'uovo e basta siamo tutti uguali. 
Ma è proprio il caso che tu venga a conoscere tali ingiustizie, tu che lì vivi senza servire nessuno? 

 Il nostro domani non era giunto, e forse non sarebbe mai giunto. 
Avrebbero sempre continuato a imbrogliarci con le promesse: 
in un rosario di delusioni alleggerite da falsi sollievi, miserandi regali, pietose comodità per tenerci quieti.

È giusto che tu nasca per morire sotto una bomba o il fucile di un sergente peloso cui hai rubato per fame una razione di rancio?

Ti ho già chiesto se sei disposto a veder scaraventare una donna su una magnolia, 
a veder piovere la cioccolata su chi non ne ha bisogno. 
Ora ti chiedo se sei disposto a correre il rischio di lavare le mutande degli altri e scoprire che il domani è un ieri. 
Tu che te ne stai dove ogni ieri è domani, e ogni domani è una conquista. 
Tu che non conosci ancora la peggiore delle realtà: il mondo cambia e resta come prima.

Poi ha schiuso le labbra ed ha detto: «È anche mio». 
L'ira mi ha travolto. 
Sono balzata a sedere sul letto e gli ho gridato che non eri né mio né suo: eri tuo. 

L'ho interrotto per esclamare: «Tanto non ce l'hai mica tu dentro il corpo, non devi mica portarlo tu dentro il corpo per nove mesi»

 E l'ira si è trasferita su lei, su tutti coloro che credono di aiutarti con le leggi del formicaio, il loro arbitrario concetto del giusto e dell'ingiusto. 

 Dovevo rigorosamente evitare ogni emozione, ogni pensiero nero. 
Serenità, placidità erano le parole d'ordine. 
Dottore, ho risposto, è lo stesso che chiedermi di cambiare il colore degli occhi:
come faccio ad essere placida se la mia natura non lo è?

 Sono una donna, perdio, sono una persona. 
Non posso svitarmi il cervello e proibirgli di pensare. 
Non posso annullare i miei sentimenti o proibirgli di manifestarsi. 
Non posso ignorare una rabbia, una gioia, un dolore. 
Ho le mie reazioni, io, i miei stupori, i miei scoramenti. 
Anche se potessi, non vorrei disfarmene per ridurmi allo stato di un vegetale o di una macchina fisiologica che serve a procreare e basta! 

La voce del sangue non esiste, è un'invenzione. 

La mamma non è colei che ti porta nel ventre, è colei che ti cresce. O colui che ti cresce. 

Essere donne è una scuola di sangue: 
tutti i mesi offriamo a noi stesse il suo spettacolo odioso.

Perché dovrei sopportare una tale agonia? 
In nome di cosa? 
Di un reato commesso abbracciando un uomo? 
Di una cellula scissa in due cellule e poi in quattro cellule e poi in otto cellule,
all'infinito, senza che io lo volessi, senza che io lo ordinassi? 
Oppure in nome della vita? 
E va bene, la vita. 
Ma cos'è questa vita per cui tu, che esisti non ancora fatto, conti più di me che esisto già fatta? 
Cos'è questo rispetto per te che toglie rispetto a me? 
Cos'è questo tuo diritto ad esistere che non tiene conto del mio diritto ad esistere? 
Non c'è umanità in te. 
Umanità! Ma sei un essere umano, tu?
Bastano davvero una bollicina d'uovo e uno spermio di cinque micron a fare un essere umano? 
Essere umano son io che penso e parlo e rido e piango e agisco in un mondo che agisce per costruire cose ed idee.

Non vedo perché dovrei avere un bambino. 
Non mi sono mai trovata a mio agio, io, coi bambini. 
Non sono mai riuscita a trattare con loro. 
Quando mi avvicino con un sorriso, strillano come se li nicchiassi. 
Il mestiere di mamma non mi si addice. 

 Ma un patto è un accordo dove ciascuno dà per ricevere, e quando lo firmammo ignoravo che avresti preteso tutto per darmi nulla.
 Del resto tu non lo firmasti per niente, lo firmai soltanto io. 

Mi ha definito assassina. 
Chiuso dentro il suo camice bianco, non più medico ma giudice, 
ha tuonato che vengo meno ai doveri più fondamentali di madre e di donna e di cittadina. 

Sbrigati, trascorri alla svelta i mesi che ti rimangono, affacciati senza timore di vedere il sole. 
Lì per lì ti abbaglierà, ti spaventerà, ma presto diverrà un'allegria di cui non potrai fare a meno. 

Sono un vigliacco, ammette, perché sono un uomo.
Però devo essere assolto, perché sono un uomo.

È solo rispettando se stessi che si può esigere il rispetto degli altri.
E' solo credendo in se stessi che si può essere creduti dagli altri.

In fondo il coraggio è ottimismo. 
Io non ero ottimista perché non ero coraggiosa. 

Se torno indietro è peggio: 
devo rifare lo stesso tratto impossibile. 
Se vado avanti, invece, ho speranza che migliori. 
Avendo il coraggio della retorica, potrei dire che sto guidando lungo una strada uguale alla mia vita: tutta buche e sassi, difficoltà.

I miei sforzi per volare non vanno mai oltre il balzo di un tacchino.

Lui disse: «Ora ti faccio vedere la luna». 
Non disse «Ora ti do la luna». 
Disse «Ora ti faccio vedere la luna». 
Ma io non notai la differenza:
non sospettavo che in cielo avesse perduto anche il goccio d'anima che gli attribuivo.
"Dammi il fagottino di luna"
"Che luna?"

"La polvere di luna che mi hai promesso!"
"L'hai appena avuta. Te l'ho lasciata toccare!"
Credevo scherzasse.

Impiegai minuti più lunghi di anni per rendermi conto che non scherzava,
che la sua promessa si era esaurita nell'atto di lasciarmi toccare la vanga.
Proprio come si fa coi poveri quando gli si consente di ammirare un gioiello in vetrina o di guardare da lontano una festa a cui non possono partecipare.
Nella sorpresa,nel dolore,non riuscivo nemmeno a rinfacciargli l'imbroglio,
a rimproverargli tanta meschinità.
Da lontananze infinite la luna era giunta a me, s'era posata sulla mia pelle, 
ed io mi accingevo a buttarla via. 
Per sempre. 
Anche volendo non avrei potuto restare così, con le dita tese, senza toccare altre cose. 
Prima o poi le avrei posate in un posto, capisci, e tutto sarebbe svanito come svanisce il fumo:
per la beffa crudele di un imbecille crudele. 
Ora sul palmo si vedeva appena un arabesco di righe sporche, contorte.
E guardarle dava un ribrezzo. 
Per arrivare a questo ribrezzo avevo tanto sognato, aspettato?

Il suo delitto non ha attenuanti perché lo commise in nome di una libertà: 
la libertà personale, egoista, che non tiene conto degli altri e dei loro diritti.

Escludo che un campione olimpionico valga più di un poeta storpio.

Io non so se questo bambino sarebbe stato una Giovanna d'Arco o un Hitler:
quando è morto egli era soltanto una sconosciuta possibilità. 
Però so chi è questa donna: una realtà da non distruggere. 
Tra una possibilità sconosciuta e una realtà da non distruggere, io scelgo quest'ultima.
Il mio collega sembra ossessionato dal culto della vita. 
Però quel culto egli lo riserva a chi potrebbe essere, non lo estende a chi lo è già.
Il culto della vita è una bella chiacchiera e basta.
Allora dovrei portare il lutto ogni volta che un uovo muore non fecondato,
ogni volta che i duecento milioni di spermii non arrivano a bucarne la membrana. 
Peggio: dovrei portare il lutto anche quando viene fecondato: pensando ai centonovantanove milioni e novecentonovantanovemilanovecentonovantanove spermii i quali muoiono sconfitti dall'unico spermio che ha bucato la membrana. 
Anch'essi sono creature di Dio. 
Anch'essi sono vivi e contengono gli elementi che compongono un individuo. 
Il mio collega non li ha mai osservati al microscopio? 
Non li ha mai visti correre scodinzolando come un branco di girini, 
non li ha mai visti faticare e lottare contro la zona pellucida, battendoci il capo disperatamente, sapendo che fallire è morire? 
Si tratta di uno spettacolo straziante:
ignorandolo, il mio collega non è generoso verso il suo sesso. 
Io non vorrei indulgere a facili ironie ma, visto che egli crede tanto alla vita, come può lasciar morire miliardi e miliardi di spermii senza farci nulla?

La gravidanza non è una punizione inflitta dalla natura per farti pagare il brivido di un momento.
È un miracolo che deve svolgersi con la stessa spontaneità che benedice gli alberi, i pesci. 
Se non procede in modo normale, non puoi chiedere a una donna di stare mesi e mesi distesa in un letto come una paralitica. 
In altre parole, non puoi esigere da lei la rinuncia della sua attività, della sua personalità, della sua libertà. 
Lo esigi forse da un uomo che con quel brivido gode molto di più? 
Evidentemente il mio collega non riconosce alle donne il diritto che riconosce agli uomini: 
disporre del proprio corpo. 
Evidentemente egli considera l'uomo un'ape cui è permesso di svolazzare di fiore in fiore, 
la donna un sistema genitale che serve solo alla procreazione.

Ho detto feto e non bambino: la scienza mi permette questa distinzione. 
Sappiamo tutti che un feto diventa un bambino solo al momento della viabilità,e che tale momento sopraggiunge al nono mese. 
In casi eccezionali, al settimo mese.

Caro collega, costei non voleva la morte del suo bambino: voleva la propria vita. 
E purtroppo in certi casi la nostra vita è la morte di un altro, la vita di un altro è la nostra morte.

La mia amica s'è voltata e gli ha sputato addosso.
E mentre lui si detergeva, pallido, la mia amica ha gridato: 
«Vigliacco. Ipocrita vigliacco. 
Tu che le telefonavi soltanto perché lo buttasse via. 
Tu che per due mesi sei rimasto nascosto come un disertore. 
Tu che sei andato da lei solo perché ti ho pregato. 
Fate sempre così, vero?
 Vi spaventate e ci lasciate sole e al massimo tornate da noi in nome della paternità. 
Tanto che vi costa la paternità? 
Un ventre sfasciato da un ingrossamento ridicolo? 
La pena del parto, la tortura dell'allattamento?
 Il frutto della paternità vi viene scodellato dinanzi come una minestra già cotta, posato sul letto come una camicia stirata. 
Non avete che dargli un cognome se siete sposati, neanche quello se siete fuggiti. 
Ogni responsabilità è della donna, ogni sofferenza, ogni insulto. 
Puttana, le dite se ha fatto l'amore con voi. 
La parola puttano non esiste nel dizionario: usarla è un errore di glottologia. 
Sono millenni che ci imponete i vostri vocaboli, i vostri precetti, i vostri abusi. 
Sono millenni che usate il nostro corpo senza rimetterci nulla. 
Sono millenni che ci imponete il silenzio e ci relegate al compito di mamme. 
In qualsiasi donna cercate una mamma. 
A qualsiasi donna chiedete di farvi da mamma: perfino se è vostra figlia. 
Dite che non abbiamo i vostri muscoli e poi sfruttate la nostra fatica anche per farvi lucidare le scarpe. 
Dite che non abbiamo il vostro cervello e poi sfruttate la nostra intelligenza anche per farvi amministrare il salario. 
Eterni bambini, fino alla vecchiaia restate bambini da imboccare, pulire, servire, consigliare, consolare, proteggere nelle vostre debolezze e nelle vostre pigrizie. 
Io vi disprezzo. 
E disprezzo me stessa per non saper fare a meno di voi, per non gridarvi più spesso: 
siamo stanche d'esservi mamme.

Dovrei sputare anche su lei, signor dottore.
Lei che in una donna vede soltanto un utero e due ovaie, mai un cervello. 
Lei che dinanzi a una donna incinta pensa: 
"Prima si è divertita e poi viene da me". 
Non si è mai divertito, lei, signor dottore?

 La maternità non è un dovere morale. 
Non e nemmeno un fatto biologico. 
È una scelta.

Lui era solo il suo datore di lavoro....
In quanto tale, non poteva che rallegrarsi all'idea che le cose fossero andate com'erano andate:
pur cedendo alla magnanimità, egli aveva sempre considerato quella gravidanza un ostacolo. 
Peggio: una catastrofe che gli sarebbe costata un mucchio di denaro. 
Bastasse pensare allo stipendio da pagarle, secondo una legge assurda e riprovevole, anche nei mesi di inerzia.
Il bambino era stato saggio, più saggio della madre. Oltretutto, morendo, aveva difeso il nome della ditta. Che avrebbe pensato il pubblico a veder la sua dipendente, non sposata per giunta, con un neonato in braccio?

In che modo si siano svolte le cose non so. 
Nessuno di voi può saperlo perché nessuno può entrare nell'anima altrui.
Non tocca a noi giudicare, né a voi. 
Non avete il diritto di accusarla né di difenderla perché non siete dentro né la sua mente né dentro il suo cuore.

Non bisogna aver paura della verità.
Ciascuno di loro ha detto una verità, e tu lo sai: 
me lo hai insegnato tu che la verità è fatta di molte verità differenti.

Non ti stancavi mai di dimostrarmi che non c'è salvezza nel formicaio,
che non si sfugge alle sue leggi cupe. 
Le magnolie servono per scaraventarci le donne,
la cioccolata la mangiano quelli che non ne hanno bisogno,
il domani è un uomo fucilato per un pezzo di pane e poi un sacco di mutande sporche.
Si concludevano sempre con una domanda, le tue fiabe tristi:
ma è proprio il caso che tu esca dal tuo nido di pace per venire quaggiù?
Non mi raccontasti mai che un fiore di magnolia si può cogliere senza morire,
che un gianduiotto si può mangiare senza umiliarsi, che il domani può essere meglio di ieri.
E quando te ne accorgesti era troppo tardi: mi stavo già suicidando.

Non è vero che non credi all'amore, mamma.
Ci credi tanto da straziarti perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto.
Tu sei fatta d'amore.

Si nasceva insomma perché altri erano nati e perché altri nascessero:
in un prolificare affine a se stesso.
Se non accadesse così, mi dicesti una sera, la specie umana si estinguerebbe.
Anzi non esisterebbe.
Ma perché dovrebbe esistere, perché deve esistere, mamma?
Lo scopo qual è?
Te lo dico io, mamma: un'attesa della morte, del niente.
Nel mio universo che tu chiamavi uovo, lo scopo esisteva: era nascere.
Ma nel tuo mondo lo scopo è soltanto morire: la vita è una condanna a morte.
Io non vedo perché avrei dovuto uscire dal nulla per tornare al nulla.

Tu mi avevi giudicato colpevole perché io mi giudicavo colpevole, 
mi avevi condannato perché io mi condannavo.

 E tu mi sei venuto accanto, mi hai detto: 
«Ma io ti perdono, mamma. Non piangere. Nascerò un'altra volta».
 Splendide parole, bambino, ma parole e basta. 
Tutti gli spermii e tutti gli ovuli della terra uniti in tutte le possibili combinazioni non potrebbero mai creare di nuovo te, ciò che eri e che avresti potuto essere. 
Tu non rinascerai mai più.
 Non tornerai mai più.

Forse perché tornare ad essere ciò che ero prima di te non mi interessa più?

 Benedetto colui che può dirsi: 
"Io voglio camminare, non voglio arrivare". 
Maledetto colui che si impone: 
"Voglio arrivare fin là". 
Arrivare è morire, durante il cammino puoi concederti soltanto fermate.

Ma a chi serve un bambino che muore e una mamma che rinuncia ad essere mamma?

Il figlio che hai voluto perdere non lascia vuoti.
La sua scomparsa non reca danno né alla società né al  futuro. 
Ferisce soltanto te, e oltremisura,

Hai scoperto che pensare significa soffrire, che essere intelligenti significa essere infelici. 
Peccato che ti sia sfuggito un terzo punto fondamentale:
il dolore è il sale della vita e senza di esso non saremmo umani.

Ti scrivo per congratularmi, per riconoscere che hai vinto:
perché sei riuscita a non cedere al bisogno degli altri, incluso il bisogno di Dio.
Dio è un punto esclamativo con cui si incollano tutti i cocci rotti:
se uno ci crede vuol dire che è stanco, che non ce la fa più a cavarsela da sé.
Tu non sei stanca perché sei l'apoteosi del dubbio.
Dio è per te un punto interrogativo, anzi il primo punto interrogativo di infiniti punti interrogativi.
E solo chi si strazia nelle domande per trovare risposte, va avanti;
solo chi non cede alla comodità di credere in Dio per aggrapparsi a una zattera e riposarsi, 
può incominciare di nuovo:
per contraddirsi di nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al dolore. 

 Ho da battermi contro le comodità dei punti esclamativi, ad esempio, ho da indurre la gente a porsi più perché. 

Il sale della vita è la felicità, e la felicità esiste: consiste nel darle la caccia.

Davvero ho sofferto così profondamente ed a lungo? 
Me lo chiedo con incredulità. 
Una volta lessi in un libro che la durezza di una pena sopportata si avverte soltanto quando ce ne siamo liberati e, stupefatti, si esclama:
"Come ho fatto a tollerare un simile inferno?"

Tu sei morto ma io sono viva. 
Così viva che non mi pento, e non accetto processi, non accetto verdetti, neanche il tuo perdono. 

 Perché a cosa serve volare come un gabbiano dentro l'azzurro se non si generano altri gabbiani che ne genereranno altri ancora ed ancora per volare dentro l'azzurro?
A cosa serve giocare come bambini se non si generano altri bambini che ne genereranno altri ancora ed ancora per giocare e divertirsi?

Guarda, s'accende una luce.
Si odono voci.
Qualcuno corre, grida, si dispera.
Ma altrove nascono mille, centomila bambini, e mamme di futuri bambini:
la vita non ha bisogno né di te né di me.
Tu sei morto.
Forse muoio anch'io. 
Ma non conta. 
Perché la vita non muore.

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