Il destino dell'uvaspina è lo stesso dalla notte dei tempi: essere spremuta, schiacciata e pestata per farci sciroppi che guariranno le malattie degli altri.
Uvaspina un giorno se lo era andato a cercare cosa era un "femminiello" e aveva capito tante cose. Aveva capito che i "femminielli", a Napoli, erano creature strane e dolcissime che sembravano venire da un etere fatto di sirene, vajasse e angeli piumati che non suonavano la lira ma un tamburello preso dalla strada. Aveva scoperto con un tuffo al cuore che i "femminielli" erano divinità terrene, certo, divinità di una mitologia fatta di vasci, vicarielli e chiese sconsacrate, ma i cui corpi sapevano muoversi e cambiare, addirittura figliare in un conturbante rito di fecondità. I "femminielli" erano pelle che stava stretta nella propria pelle e che per questo teneva 'e ppalle di cambiare; erano creature libere e metamorfiche che avevano gli stessi poteri di San Gennaro, la facoltà di mettere tutto sotto e ngoppa e di scatenare rivoluzioni contro le menti e le cattedrali.
I suoi compagni ormai lo avevano bollato, gli avevano messo la pellicola di quella parola addosso senza sapere nemmeno che stavano dicendo. Lo avevano rivestito come un salume nella rete del macellaio: quella pellicola gli si era avvolta addosso e lo aveva reso un animaluccio esotico, una specie di pantera in cattività che abitava a Chiaia. E quindi per tutti Uvaspina era "o'femminiello" e quella parola continuava a sgusciare nelle bocche dei compagni, che la alternavano con "ricchione" e in quelle parole racchiudevano tutta la loro paura e curiosità per ciò che non era ovvio, per chi osava avventurarsi oltre i confini netti e violenti tracciati dai genitori. In quegli insulti confusi i compagnelli trovavano l'unica libertà, l'unica trasgressione che Chiaia potesse concedere.
C'era un dolore sordo e oceanico che univa Uvaspina e la sorella, come se entrambi conoscessero la fonte da cui zampilla il sangue e che esiste dalla notte dei tempi. Tutti e due volevano qualcosa ma non riuscivano ad acchiapparla.
Uvaspina e Minuccia si guardarono più volte. Ogni parola tra quei due, muta o silenziosa che fosse, era più vera di ogni cosa.
Il problema tuo è che te ne stai sempre da solo. Si vede che non c'è nessuno che se ne fotte di te, si vede che soffri. Dico bene?
Uvaspina era tutto paura ed era la paura a dargli la forza.
Aveva pensato alla Spaiata perché forse quella chiagnazzara gli era sembrata una nota bella e selvatica in mezzo a quella gente ingessata che non bestemmiava mai: la Spaiata era un ciuffo di erba gramigna, il pistillo di un fiore nuovo e stregato, il corpo della città che si spogliava e si offriva a lui senza scuorno. La Spaiata era diversa da quella gente di latrina, era forcellara e campagnola, boschereccia e cittadina, spontanea come il mare decorato dalla spuma, chiagnazzara che gli aveva insegnato a piangere e a ridere per la prima volta.
Uvaspina capì che Antonio apparteneva a un altro regno, che non era quello umano ma forse nemmeno quello animale, era un regno in cui i cristiani si scambiavano sguardi con gli uccelli e s'intendevano e nel volo degli uccelli Antonio ci poteva leggere tutte le cose del creato.
Uvaspina aveva capito che l'inquietudine te la può calmare solo chi te l'ha messa in corpo.
Antonio veniva vicino a lui con i suoi capelli arruffati, gli dava una beccata sulla punta del naso e poi scendeva fino al labbro, gli apriva la bocca e Uvaspina lo baciava con gli occhi aperti perché voleva capire se stava sognando. Uvaspina non aveva più vergogna di poggiargli la testa sulle gambe. Non voleva sapere se Antonio era ricchione o meno, se sarebbe tornato da quella ragazza riccia e bella, voleva soltanto che continuasse a pizzicarlo col suo becco da pulcino perché in quei colpi di becco c'era la misura di tutta la felicità che aveva sempre avuto scuorno anche solo di immaginare.
Quell'uomo con un occhio lo incantava e con l'altro lo precipitava nell'Ade.
Uvaspina respirava l'odore del maschio che stava annidato sotto l'epidermide di Antonio: non era un odore umano ma una specie di premio e castigo che lui pensava di doversi meritare. Un nodo gli stringeva la gola e sentiva che quello che c'era dopo l'amore era ancora più grande del possedere e dell'essere posseduto, ancora più forte del desiderio e della sazietà.
Il morto chiamato Salvatore Di Giacomo, protetto dalla coltre della morte, aveva accarezzato la cresta dei pensieri nascosti di Uvaspina e aveva indovinato desideri che lui non si sentiva manco degno di avere. L'"ammore", l'amore di cui tutti si riempivano la bocca non era per quelli come lui, al massimo lui poteva pigliarsi gli avanzi, e gli veniva da chiagnere a pensare a quel "quanto mme sì custata", perché Antonio gli era costato, lo aveva pagato caro, lo aveva pagato in tanti anni ad accucciarsi come i cani randagi quelli soli e brutti che non vuole nessuno. Lui l'ammore non se lo meritava, l'ammore era solo degli altri, di quelli che andavano a mangiare insieme a Via Caracciolo e poi si abbracciavano sul lungomare con una cattiveria immane perché la felicità vista da fuori è crudele, ti colpisce come un manrovescio, uno schiaffo egoista che ti dice soltanto: "Tu no".
Ma sai che c'è? Quando ti trovi invischiato in certe situazioni poi non sai come uscirtene e quindi ci stai dentro e basta.
"Certo che sono tuo, lo sono stato da quando ti ho pigliato per un piede in mezzo al mare, che stavi per crepare". Antonio si sciolse come un bambino e Uvaspina lo volle di nuovo dentro di sé, perché Antonio era soltanto suo, e basta. Voleva tutto di lui ma soprattutto voleva le sue storie che gli facevano vedere il volto di Napoli. Quando Antonio gli entrava dentro, non era soltanto la sua carne a riempirlo, ma le storie di regine, le favole della città antica, dolce e maliziosa, il mare, i frutti sani e non spremuti. Perché quando Antonio se lo stringeva al petto come un bamboloccio, Uvaspina si sentiva intero: capiva il senso di quella voglia che aveva sotto l'occhio e che si portava appresso dal giorno in cui la Spaiata lo aveva sgravato. Uvaspina accettava di essere un frutto, un frutto buono non soltanto a essere strizzato, non soltanto a curare i dolori dell'altra gente. Finalmente Antonio aveva trovato il modo di tirargli fuori un balsamo nuovo, che gli ridava una scorza diversa e gli disegnava una pelle vera.
Sembrava che la sua vita fosse un insieme di quadri e cornici e dipinti e accozzaglie attaccati con lo sputo su una parete liscia. E ora tutto se ne stava carenn'abbascio. Da qualche parte, qualsiasi parte, da una sfaccimma di parte, bisognava iniziare a raddrizzare.
Perché il velo del sesso copriva tutto e condannava due persone a starsene appiccicate come calamite: si cominciava a dormire insieme dopo aver chiavato, poi a mangiare insieme, a figliare, e si finiva per tenersi la porta aperta a vicenda mentre si pisciava.
Voleva mettersi nella sua stanza da solo e jettare o'sango, senza dovere dare conto: a lui nessuno gli dava mai conto, e perché avrebbe dovuto farlo lui con gli altri?
Sentiva tutto come da dentro un acquario, chiuso nel suo dolore che non guardava in faccia a nisciuno. Perché il dolore era la cosa più egoista del mondo: andava vissuto da soli, per i cazzi propri, perché il dolore non è come il pane e,per quanto lo vuoi spartire con qualcuno, alla fine sei solo tu che te lo mastichi e te lo piangi.
Gli saliva qualcosa in gola, qualcosa di caldo che aveva il sapore acido dell'ingiustizia e dell'amore jettato nel cesso.
Tutti sono compagni, ma pochi sono gli amici.
Pensava che un uomo era finito quando nessuno gli poteva più chiedere i piaceri ma era solo costretto ad avanzarli agli altri.
Un fiotto di rabbia antica prese a scorrergli in quella parte segreta del corpo dove ci stavano i dispiaceri e le cose maltolte.
Desiderò di essere lui la sposa di Antonio, la spesa che avrebbe avuto per sempre tutto quel giacimento di storie, da mattina a sera: gli venne da piangere nel pensare che a Minuccia toccava la luce del giorno, mentre a lui sempre le fogne e le saittelle.
Un bruciante sentimento di vittoria e sconfitta insieme: forse quella era la misura di tutto l'amore.
Antonio c'era ma non c'era, era come certe isole che scompaiono all'orizzonte nei giorni di pioggia come quello: stanno là in mezzo al mare, ma non si fanno mai vedere bene.
La felicità vissuta a Napoli si paga a caro prezzo: più sei felice, più jetti o'sango, perché Napoli con una mano ti offre un po' di bene e poi se lo rimangia, se lo rimette in panza e non rimane manco un tozzo di pane.
L'uvaspina non era un'uva che poteva essere pestata per farne del vino, era soltanto una bacca che serviva per guarire e sopportare i dolori degli altri.
Nei lamenti delle donne come la Spaiata c'era qualcosa di poco umano: non c'era la donna, c'era la scrofa tenuta nel recinto, la cagna percossa dal padrone, la sacerdotessa, la mantide religiosa, la lavandaia, la puttana sguaiata che piangeva sulle ferite del corpo purulento e divino di Napoli, che continuava a spandere il suo tumore ovunque. Il morbo di Napoli si ficcava nelle case, nel reticolo delle strade, nel basolato, nelle bocche aperte della gente e nel velo di cipria posato sulle guance delle signore che piangevano, che pure a chiagnere ci volevano arte e sofferenza e la Spaiata lo sapeva meglio di tutti.
Della gente di mare non ci si può fidare perché si lamentano e ridono insieme, e anche il loro lamento alla fine diventa una presa per culo e una pernacchia.
Certi napoletani erano come i criaturi, avevano bisogno di credere in qualcosa. Se non li ammazzava il vulcano, li ammazzava la realtà.
La felicità non fa guardare in faccia a nessuno e quella amorosa è la felicità più crudele.
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