giovedì 7 marzo 2013

Emil Cioran

Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo.
Chi si sente solo vive un dramma puramente individuale; il sentimento dell'abbandono può sopraggiungere anche in una splendida cornice naturale.
In tal caso interessa unicamente la propria inquietudine.
Sentirti proiettato e sospeso in questo mondo, incapace di adattarti ad esso, consumato in te stesso,distrutto dalle tue deficienze o esaltazioni, tormentato dalle tue insufficienze, indifferente agli aspetti esteriori ,luminosi o cupi che siano , rimanendo nel tuo dramma interiore: ecco ciò che significa la solitudine individuale.
Il sentimento di solitudine cosmica deriva invece non tanto da un tormento puramente soggettivo,quanto piuttosto dalla sensazione di abbandono di questo mondo, dal sentimento di un nulla esteriore.
Come se il mondo avesse perduto di colpo il suo splendore per raffigurare la monotonia essenziale di un cimitero.
Sono in molti a sentirsi torturati dalla visione di un mondo derelitto, irrimediabilmente abbandonato ad una solitudine glaciale, che neppure i deboli riflessi di un chiarore crepuscolare riescono a raggiungere.
Chi sono dunque i più infelici: coloro che sentono la solitudine in se stessi o coloro che la sentono all'esterno? Impossibile rispondere.
E poi, perché dovrei darmi la pena di stabilire una gerarchia della solitudine?
Essere solo non è già abbastanza?

Che cosa succederebbe se il volto umano esprimesse fedelmente tutta la sofferenza di dentro, se l'espressione traducesse tutto il tormento interiore?
Riusciremmo ancora a conversare?
Non dovremmo parlare nascondendoci il volto con le mani?
La vita diventerebbe decisamente impossibile se i nostri tratti palesassero l'intensità dei nostri sentimenti. Nessuno avrebbe più il coraggio di guardarsi allo specchio, perché un'immagine insieme grottesca e tragica mescolerebbe ai contorni della fisionomia macchie di sangue, piaghe sempre aperte e rivoli di lacrime irrefrenabili.

Una constatazione che verifico, con mio grande rammarico, a ogni istante: sono felici solo coloro che non pensano mai, vale a dire coloro che pensano giusto il poco che basta per vivere.

Vorrei perdere la ragione a un unico patto: essere sicuro di diventare un pazzo allegro, brioso ed eternamente di buon umore, senza problemi né ossessioni, che ride senza motivo dalla mattina alla sera.

Si è "civilizzati" nella misura in cui non si esibisce la propria lebbra e si porta rispetto all'elegante falsità costruita dai secoli.

Se tutti coloro che abbiamo ucciso col pensiero scomparissero davvero, la terra non avrebbe più abitanti

Quei figli che non ho voluto, sapessero la felicità che mi debbono!

Se obbedissi al primo impulso, passerei le giornate a scrivere lettere di ingiurie e di addio.

Un silenzio improvviso nel mezzo di una conversazione ci riporta d'un tratto all'essenziale:
ci rivela a quale prezzo dobbiamo pagare l'invenzione della parola.

A differenza di Giobbe non ho maledetto il giorno della mia nascita;
gli altri giorni, in compenso, li ho coperti tutti di anatemi.

Aver commesso tutti i crimini, tranne quello di essere padre.

Non aver realizzato nulla, e morire sfiniti.

Se potessimo vederci con gli occhi degli altri, scompariremmo all'istante.

Credo di non avere mai perso un'occasione di essere triste.

In un mondo senza malinconia gli usignoli si metterebbero a ruttare.

Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro, non c'è alcun dubbio che si sarebbe fatto colare a picco.

Allo zoo tutte queste bestie hanno un contegno decente, all'infuori delle scimmie.
Si sente che l'uomo non è lontano.

La timidezza, fonte inesauribile di disgrazie nella vita pratica, è la causa diretta, anzi unica, di ogni ricchezza interiore.

Finché si è scontenti di sé non tutto è perduto.

Spesso mi capita di pensare, durante una cena, in mezzo alla folla, a un concerto, in un giardino:
 «Tutta questa gente è condannata a morire, non ha scampo».
E questa ovvietà, a seconda dell'umore del momento, mi dà sollievo o mi prostra.

Mi ci vuole ogni giorno la mia razione di dubbio.
Me ne nutro, letteralmente.
Non c'è mai stato uno scetticismo più organico.
Datemi dubbi e ancora dubbi. Più che il mio cibo, sono la mia droga. Non posso farne a meno.
Ne sono intossicato a vita.
Perciò, quando ne trovo uno, uno qualsiasi, mi ci avvento sopra, lo divoro, lo incorporo nella mia sostanza. Perché la mia capacità di assimilare dubbi è sconfinata; li digerisco tutti, sono ciò che mi tiene in vita e la mia ragione d'essere.
Non riesco a immaginarmi senza di loro. Datemi dubbi, ancora e sempre dubbi.
Io sono un dubitatore incurabile.



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