giovedì 5 settembre 2024

"Niente di vero" Veronica Raimo (2022)



LA TRAMA:
La lingua batte dove il dente duole, e il dente che duole alla fin fine è sempre lo stesso. L'unica rivoluzione possibile è smettere di piangerci su. In questo romanzo esilarante e feroce, Veronica Raimo apre una strada nuova. Racconta del sesso, dei legami, delle perdite, del diventare grandi. E nella sua voce buffa, caustica, disincantata, esplode il ritratto finalmente sincero e libero di una giovane donna di oggi. "Niente di vero" è la scommessa, riuscita, rarissima, di curare le ferite ridendo.


IL MIO GIUDIZIO:
Mi sento un po' in difficoltà, in quanto, solitamente, recensisco solo libri che mi abbiano appassionato veramente, mentre quelli che non mi coinvolgono fino in fondo, li abbandono al loro destino e mi dedico ad altre letture. Quest'opera non è che mi abbia annoiata, anzi... è scritta in maniera scorrevole e con uno stile ironico, solo che dice tanto ma, di fatto, non racconta niente; è molto fumo e poco arrosto...giunta all'ultima pagina mi sono trovata a domandarmi:"E quindi?". 
Mi ha lasciato in bocca un senso di incompiuto...vengono narrati una serie di eventi senza un apparente filo logico che danno un senso di caotico e di inconcludenza. 

Sono sincera: non conoscevo né l'autrice né l'opera. Me ne aveva parlato un'ospite che ha soggiornato nella struttura dove lavoro e che, dopo aver letto i miei libri, mi aveva confessato che i miei racconti di vita vissuta le avevano ricordato questo romanzo, vincitore del Premio Strega 2022. La cosa mi ha incuriosito e ho deciso di leggerlo. 
È vero, stilisticamente e per i contenuti autobiografici, forse un po' ci assomigliamo ma, per tutto il resto, mi sento di dissentire. Io, nella mia esposizione, sono assai ironica e autoironica, a tratti dissacrante, a tratti esilarante ma tendo sempre a sdrammatizzare ogni situazione per fare scaturire un sorriso in chi legge; la Raimo, invece, nello sviscerare le ossessioni della sua famiglia disfunzionale tende al parossismo, lasciandoti addosso una sensazione di malessere e disagio: un petulante fratello maggiore genio incompreso, due nonni un po' naif, dei genitori ansiosi, apprensivi,iperprotettivi, oltremodo assillanti e ipercontrollanti che stanno insieme tutta la vita senza amore né passione, tediandole l'esistenza tanto che, la stessa autrice, sembra vivere in un mondo tutto suo, disconnessa dalla realtà. 

Come si evince anche dal titolo "Niente di vero", ciò che viene narrato in queste pagine, non si sa nemmeno se corrisponda alla realtà oppure no: quando era bambina, Veronica scriveva un diario segreto, inventando di sana pianta per depistare sua madre, che sapeva che lo avrebbe letto. In quei diari non c'era, appunto, "niente di vero". Ma anche in tutta la sua famiglia, come ci spiega, c'è sempre stata l'abitudine ad inventare, ad alterare una realtà non gradita, a proprio piacimento, tanto è vero che i ricordi comuni sono tutti differenti, in quanto ognuno di loro si è creato la propria versione dei fatti nella sua testa. Quindi, c'è da chiedersi se le pagine di questo libro siano realmente autobiografiche o se siano una sorta di fiction. 

Onestamente e senza falsa modestia, penso che se quest'opera si è aggiudicata il Premio Strega, allora potrei benissimo vincerlo pure io. Non dico "Ho sbloggato" che è ancora un po' "immaturo" ma gli altri due non vedo cosa possano avere in meno di "Niente di vero", se non che lei pubblica con Einaudi e io mi devo arrabattare ad autopromuoverni con Youcanprint.

Al di là di tutto, comunque, mi sento di consigliarne la lettura: da scrittrice so quanto lavoro, passione e fatica ci siano dietro la stesura di un libro e ciò va sempre rispettati: il fatto che non sia "arrivato" a me non significa che sia un'opera mediocre, ma semplicemente che non si confà ai miei gusti che sono strettamente personali. A me non ha entusiasmato ma ciò non vuole dire che, invece, non possa piacere e pure molto, ad altre persone.




IL MIO VOTO:
L'intento è quello di fare sorridere, portando al parossismo le ossessioni di una famiglia un po' disfunzionale ma, in realtà, ciò che mi ha trasmesso è una sensazione di disagio e, soprattutto, di inconcluso. Scritto bene ma, personalmente non mi ha entusiasmato (ovviamente è il mio modesto parere, non certo un imperativo categorico!)


LA SCRITTRICE:



 

Frasi dal libro "Niente di vero" di Veronica Raimo

 Per mia madre, il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale.

Il fallimento non è la cosa peggiore, la cosa peggiore è l'indecisione, il bilico. C'è una parte di te che non riesce a lasciarti eppure non ti appartiene già più.

Non c'è niente che faccia schifo quanto il provare schifo per qualcosa.

So che resterà nella mia vita perché le coppie smettono di esistere, le persone no.

Si chiamava Francesca ma aveva deciso di cambiare il suo nome in Glenda. Esiste già una Francesca nella vita di ognuno, sosteneva.

Perdo un mucchio di tempo nella mia vita, ma odio dover aspettare.

1978. Scandì la cifra come se stesse rivelando un fatto a me ignoto.
"Non sei così giovane", disse, "perché ha deciso di abortire?"
"Perché non volevo un figlio"
"Non è mica una ragazzina", mi disse, "se non vuole un figlio, dovrebbe sapere come si fa a evitarlo"

Il cimitero dei feti. O, per usare l'eufemismo con cui viene chiamato dalle associazioni cattoliche che li gestiscono, "il giardino degli angeli". In realtà ne ignoravo l'esistenza, fino a quando ho letto un articolo sul giornale in cui una donna denunciava di averci trovato il proprio nome e cognome apposto su una croce. Inumato sotto la croce c'era il feto che aveva abortito. La donna non aveva mai dato l'autorizzazione alla sepoltura. Aveva scritto un post su Facebook per riportare l'accaduto, erano seguite altre denunce di donne che si erano ritrovate davanti la stessa scena: una croce col loro nome e cognome e la data dell' aborto. Sotto le croci c'erano i resti dei loro embrioni o feti. Non avevano mai dato l'autorizzazione o non sapevano di averlo fatto. Sembra un film dell'orrore. Invece è solo la destra italiana unita al cattolicesimo antiabortista. In effetti, due ingredienti perfetti per un film dell'orrore.

I convenevoli mi spaventano, mi fanno sentire esposta, in ritardo sulla vita.

L'assurdo disarmava il disagio.

Sono sempre stata aliena al concetto di "lasciarsi andare", per un motivo molto banale: non so dov'è che dovrei andare.

"Mi hai deluso, pensavo fossi un' artista, non una commessa della Standa".
Mi spiaceva per la delusione, però non è facile sapere come reagire se qualcuno ti accusa di non essere un' artista quando tu non hai mai pensato di esserlo.

A dire il vero ci sono un mucchio di bambini per i quali non mi sono mai ritagliata un ruolo da madrina, da zia, da sorellastra, da baby sitter o da semplice conoscente. Di solito loro nascono e io mi dileguo. Posso commuovermi per la nascita di un cucciolo di riccio, di volpino, di orso ma appena viene al mondo un bambino, di fronte ai suoi vagiti non so che fare. Mi limito ad annuire. Okay, dico. E poi sparisco.

Nella mia vita non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Nemmeno mezzo vuoto. Lo vedo sempre sul punto di rovesciarsi. Oppure non lo vedo proprio. Non c'è nessun bicchiere. Non c'è niente. Sono di fronte a un tavolino brutto e sopra il nulla. Potrebbe sparire anche il tavolino. Anzi, è già sparito.
Non mi resta l'assenza, ma la perplessità.

La morte è atroce ma l'impossibilità del lutto è disumana.

Il rapporto tra i miei genitori è sempre stato un modello: due persone che si sono amate fino alla fine. Per me è stato il modello di tutto ciò che non avrei mai voluto nella mia vita: due persone che non si rendevano felici e che sono state insieme fino alla fine.


sabato 3 agosto 2024

"L'età fragile" Donatella Di Pietrantonio (2023)

 





LA TRAMA:
Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c’è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent’anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c’erano tutti. I pastori dell’Appennino, i proprietari del campeggio, i cacciatori, i carabinieri. Tutti, tranne tre ragazze che non c’erano più. Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento: i primi tempi a Milano aveva le luci della città negli occhi, ora sembra che desideri soltanto scomparire, si chiude in camera e non parla quasi. Lucia vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c’è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile. A volte il tempo decide di tornare indietro: sotto a quella montagna che Lucia ha sempre cercato di dimenticare, tra i pascoli e i boschi della sua età fragile, tutti i fili si tendono. Stretta fra il vecchio padre così radicato nella terra e questa figlia più cocciuta di lui, Lucia capisce che c’è una forza che la attraversa. Forse la nostra unica eredità sono le ferite.


IL MIO GIUDIZIO:
Per comporre questa opera, la Di Pietrantonio si è ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto il 20 Agosto 1997 sul Monte Morrone, nell'Appennino Abruzzese (meglio conosciuto come l'omicidio del Morrone che, per certi versi, ricorda un po' il delitto del Circeo), quando 3 giovani ventenni padovane, due sorelle e una loro amica, furono aggredite da un pastore macedone a cui avevamo chiesto indicazioni per raggiungere un rifugio di montagna, avendo smarrito il sentiero. Dopo un tentativo di violenza sessuale ne uccise due, la terza si salvò fingendosi morta e poi riuscendo a scappare. Ovviamente la storia è stata romanzata, sono stati modificati i nomi, i tempi ed i luoghi ma tanti piccoli dettagli sono stati riportati senza essere alterati, ad esempio la foto delle vittime, scattata pochi giorni prima della tragedia, è stata descritta nel libro esattamente così com'è nella realtà.

La protagonista de "L'età fragile" è Lucia, che ha 50 anni, vive a Pescara, fa la fisioterapista e, da pochi mesi, è separata da Dario; i due si sono fidanzati dopo "il fatto" (esattamente come l'unica superstite della strage del Morrone, che aveva conosciuto il suo attuale marito durante quella tragica vacanza). Lucia e Dario hanno una figlia, Amanda, di 20 anni che si è trasferita a studiare a Milano ma, complice il periodo del Covid, rientra a Pescara per trascorrere il lockdown con la madre. In realtà il lockdown è solo una scusa: Amanda, in seguito a uno scippo subito nella città lombarda, senza essere stata soccorsa e aiutata da nessuno, ha perso entusiasmo per la vita e fiducia nel mondo, è diventata diffidente e ansiosa e ha deciso di interrompere gli studi. Lucia si trova quindi di fronte a una ragazza apatica, lavativa e scontrosa, che si trascina inerme dal letto al divano senza nessuno stimolo né obiettivo. Non sa cosa fare per scuoterla da questo torpore. Lucia sa bene, avendolo sperimentato sulla propria pelle, che "l'unica nostra eredità sono le ferite" e ripensa che, quando è avvenuto "il fatto", lei aveva la stessa età di Amanda.

Con un flashback ci riporta, così, indietro nel tempo, all'Agosto del 1992, e a quell'ultima estate spensierata con Doralice, la sua migliore amica, figlia del migliore amico di suo padre. I genitori di Doralice gestivano un campeggio su un terreno di montagna chiamato Dente del Lupo, che era di proprietà dei genitori di Lucia. Il 28 Agosto, con la stagione che stava ormai per giungere al termine, Lucia decide di trascorrere una giornata al mare con gli amici "di città", senza invitare Doralice, di cui un po' si vergogna perché troppo grezza e montanara. La sera stessa Doralice scompare e, insieme a lei, due sorelle modenesi sue coetanee che soggiornavano al campeggio, Virginia e Tania. Partono subito le ricerche e i cadaveri delle due sorelle vengono rinvenuti nel bosco, uccise da dei colpi di arma da fuoco, sul corpo di Virginia sono presenti anche segni di violenza sessuale. Di Doralice nessuna traccia. Viene ritrovata soltanto il giorno seguente, ferita, sotto shock ma viva: dopo il primo colpo di pistola si è finta morta ed è riuscita a fuggire. Grazie alla sua preziosa testimonianza, l'assassino, un pastore straniero che viveva solitario sui monti della zona, viene rintracciato, processato e condannato. Quell'estate, inesorabilmente e drammaticamente, mette fine alla loro gioventù e alla loro leggerezza: "Eravamo giovani ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all'altro che potevamo cadere, perderci e persino morire." Mette fine, però, anche alla loro amicizia: Lucia si sente in colpa per essere andata al mare senza invitare Doralice: se lo avesse fatto, niente sarebbe accaduto. 
Doralice, dal canto suo, si sente in colpa per essere sopravvissuta, per l'istinto di sopravvivenza che l'ha fatta scappare mentre il pastore uccideva le sue amiche e perché, se quella sera non fosse passata a salutarle al campeggio, proponendo loro una passeggiata nel bosco, non sarebbero morte. 

Lucia torna poi ai giorni nostri: adesso è lei la proprietaria del Dente del Lupo, suo padre glielo ha ceduto, e deve decidere cosa farne e, soprattutto, se accettare l'offerta che certi speculatori edilizi le hanno fatto, per acquistare il terreno e costruirci un resort di lusso. Le entrerebbero in tasca molti soldi ma questo significherebbe allontanare tutti i pastori che fanno pascolare i loro greggi nella zona. 
Senza volerlo, sarà proprio la questione della vendita del Dente del Lupo, a risvegliare in qualche modo l'animo di Amanda.

Della Di Pietrantonio, qualche anno fa, avevo letto "L'Arminuta" che mi era piaciuto veramente tanto. Ho apprezzato anche questo ultimo romanzo, vincitore del Premio Strega 2024 fra l'altro, per il suo stile asciutto ma scorrevole e coinvolgente, qualcosa a metà fra un poliziesco e un articolo giornalistico. Però, arrivata a fine lettura, è come se ci fosse qualcosa di incompiuto, alcuni personaggi (ad esempio Rubina, la vicina di casa) sono soltanto abbozzati mentre la figura di Amanda non si comprende del tutto: è presente nella narrazione ma è sfuggente, è come se non ci fosse. Oltre al punto di vista di Lucia, sarebbe stato interessante, secondo me, avere anche quello della figlia. 



IL MIO VOTO:
Ispirandosi a un fatto di cronaca realmente accaduto sul monte Morrone nel 1997, la Di Pietrantonio, con uno stile crudo e asciutto, ci accompagna nei meandri della fragilità umana dove, basta un niente, una minima deviazione di percorso, un capriccio del caso e tutto può inesorabilmente cambiare. Opera coinvolgente, ma non un capolavoro. Ho nettamente preferito "L'Arminuta".




L'AUTRICE:







Frasi dal libro "L'età fragile" di Donatella Di Pietrantonio

E io mi vedo, sola. Mi manca una confidenza, l'intimità delle piccole cose quotidiane. Sedere a tavola uno di fronte all' altra, trovarsi con lo sguardo. 
È questo l'amore che non ho più. 
È diventato nostalgia.
Certe mattine rinuncerei ad alzarmi. 
Vorrei affondare in un sonno libero e irresponsabile, per un giorno, una settimana o di più. Servire soltanto me stessa, dimenticarli tutti. Mio padre mi chiede di accompagnarlo nel suo ultimo tratto. A mia figlia devo restituire il mondo. Mi tirano ognuno dalla propria parte, al proprio bisogno. Mi spezzano.

Tutto ciò che esce dalla bocca mi disturba. Più della bava, le parole, a volte.


A un certo punto la vita accelera. Dopo resta tutto fissato a un' immagine, a un suono del momento. Sì torna sempre lì.


Eravamo giovani ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all'altro che potevamo cadere, perderci e persino morire.


La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma non siamo mai pronti a toccarla. Restano per sempre angeli senza sesso nel chiuso delle nostre teste. Indifferenziati, mai del tutto partoriti.


È già successo, non c'è niente di nuovo. È vero, ma mentre diamo un nome a ciò che è già successo io mi sento mancare.


La differenza di colore è netta eppure non dà fastidio. Significa che lì c'era una ferita che è stata curata.


Non so se parlo alla bambina che si attarda o alla donna che sarà. Ma i figli quando cominciano a essere davvero grandi? 


Nessun posto è sicuro, dove arriva l'uomo può portare il male.


La natura è bella per i ricchi, non se devi lavorare come uno schiavo.


La bellezza intorno a noi non ci riguardava. Non ammiravamo la natura, dovevamo combatterla. Bastava un temporale sul grano maturo a impoverirci. Lottavamo contro il vento, le malattie degli animali e i parassiti delle piante. La natura che ci nutriva era la stessa che ci affamava.


La strada c'è già da qualche parte ma lei deve ancora trovarla.


Lei non può più perdere tempo, gli anni passano, gli altri vanno avanti, occupano posti...ma non capisce che lei a quella corsa non ci partecipa.


Forse la nostra unica eredità sono le ferite.



martedì 9 luglio 2024

"Cuore nero" Silvia Avallone (2024)


 


LA TRAMA:
L’unico modo per raggiungere Sassaia, minuscolo borgo incastonato tra le montagne, è una strada sterrata, ripidissima, nascosta tra i faggi. È da lì che un giorno compare Emilia, capelli rossi e crespi, magra come uno stecco, un’adolescente di trent’anni con gli anfibi viola e il giaccone verde fluo. Dalla casa accanto, Bruno assiste al suo arrivo come si assiste a un’invasione. Quella donna ha l’accento “foresto” e un mucchio di borse e valigie: cosa ci fa lassù, lontana dal resto del mondo? Quando finalmente s’incontrano, ciascuno con la propria solitudine, negli occhi di Emilia ,“privi di luce, come due stelle morte”, Bruno intuisce un abisso simile al suo, ma di segno opposto. Entrambi hanno conosciuto il male: lui perché l’ha subito, lei perché l’ha compiuto...un male di cui ha pagato il prezzo con molti anni di carcere, ma che non si può riparare. Sassaia è il loro punto di fuga, l’unica soluzione per sottrarsi a un futuro in cui entrambi hanno smesso di credere. Ma il futuro arriva e segue leggi proprie; che tu sia colpevole o innocente, vittima o carnefice, il tempo passa e ci rivela per ciò che tutti siamo: infinitamente fragili, fatalmente umani.


IL MIO GIUDIZIO:
Silvia Avallone, che a mio avviso si configura fra le migliori autrici degli ultimi anni, la consiglio sempre a scatola chiusa perché i suoi romanzi si contraddistinguono per i personaggi intensi ed umani, per le storie mai banali che racconta, per lo stile scorrevole e coinvolgente. 
Ho letto tutte le sue opere (mi manca solo "Marina Bellezza" che è in "lista di attesa sul Kindle) e, questo suo ultimo lavoro, per alcuni versi e in certi passaggi, mi ha ricordato un po' la sua precedente "Un'amicizia". 

Le figure di spicco di "Cuore nero"sono Bruno, 36 anni, maestro elementare ed Emilia, trentenne laureata in Belle Arti e restauratrice. Bruno è nato ed ha sempre vissuto (tranne una breve parentesi a Torino per frequentare l'università) a Sassaia, un minuscolo agglomerato di case che conta solo 2 abitanti, abbarbicato sui monti della Valle Cervo (fra il Piemonte e la Val d'Aosta), raggiungibile esclusivamente a piedi, tramite una mulattiera in mezzo ai boschi e totalmente isolato d'inverno,con la neve. Lì trascorre i suoi giorni come cristallizzato, ibernato, quasi avulso dalla vita dopo che, proprio la vita, quando aveva solo 11 anni, in una frazione di secondo, ha beffardamente giocato con il suo destino decidendo le sue sorti e quelle di tutta la sua famiglia. 
Emilia, invece, è nata a Ravenna ma ha trascorso metà della sua esistenza a Bologna, in carcere, per un efferato delitto di cui si è resa protagonista quando era poco più che adolescente. Adesso, finalmente donna libera e "recuperata", si è rintanata in questo buco di paese, nella casa che era stata di una sua prozia, per fuggire dal passato e dal resto del mondo che, nonostante lei abbia scontato per intero la sua pena, continua a definirla un "mostro" e ad organizzare manifestazioni per contestare la sua scarcerazione. 
Bruno ed Emilia, inevitabilmente, si conoscono e si innamorano, come due ragazzini alla prima cotta perché, nonostante la loro età adulta, per differenti motivi (lui non ha voluto, lei non ha potuto) non hanno mai vissuto una vera relazione sentimentale. A gravare su di loro, però, le ombre di ciò che è stato che ha reso nero il loro cuore, in special modo quello di Emilia.
La trama si dipana su due piani temporali diversi ma paralleli: il presente ed il passato e, elemento che rende particolare il romanzo, la voce narrante è quella di Bruno. La "vittima" che racconta la carnefice. Come sostiene egli stesso, lui deve scrivere, in quanto "le parole servono proprio a vivere, a ricordare, a capire. A lasciare una traccia per non morire del tutto, per non fare morire chi amiamo".

Prendendo spunto da dei fatti di cronaca realmente accaduti (che qui non dico per non fare spoiler),  "Cuore nero" è un romanzo che inneggia alla forza dell'amore, alla speranza, al fatto che, qualunque evento tragico ci sia accaduto, si debba trovare il coraggio di vivere, a qualunque costo, come la Fenice che rinasce dalle proprie ceneri. Ma è, soprattutto, un romanzo che inneggia alla "redenzione" e al mettersi sempre nei panni degli altri, a non giudicare a priori, a non condannare, perché "dentro di noi non c'è una sola persona" e nessuno è esente dal poter diventare, in un attimo di smarrimento o di perdita di equilibrio, un orribile criminale.


IL MIO VOTO:
Personaggi intensi e molto "umani", storia non banale e avvincente, stile fresco e scorrevole. Silvia Avallone non delude mai e ci regala sempre degli ottimi romanzi. Consigliato!



LA SCRITTRICE: