Sapore di Libri
BLOG DI RECENSIONI LETTERARIE E CITAZIONI.
lunedì 8 maggio 2023
"Attraversare i muri: un'autobiografia" Marina Abramovic (2016)
Brevemente, posso dirvi che "Attraversare i muri" è l'autobiografia di Marina, correlata di foto, dove l'artista ripercorre i suoi primi 70 anni (adesso ne ha quasi 76), mettendosi a nudo (letteralmente) fra arte, amore, famiglia e interiorità. Partendo dalla sua infanzia in una Belgrado sotto il regime comunista, figlia di due eroi di guerra che hanno combattuto da partigiani al fianco di Tito, con un padre affettuoso ma assente ed una madre fredda, violenta che l'ha educata all'ordine e alla disciplina, controllandola e privandola di ogni libertà; arriva a parlare della sua vita come performing artist.
Con l'arte sfida il senso del pericolo mettendosi alla prova in performance assai pericolose sia a livello fisico che psicologico; usa il corpo come materia prima, lo spinge al massimo, oltre il limite della sofferenza, tanto che in molti, almeno inizialmente, più che dell' artista le danno della masochista, dell' esibizionista e della pazza. In questo le è di aiuto la sua profonda spiritualità, il suo credere nelle energie e la sua inimmaginabile capacità di concentrazione. Marina ritiene che l'arte non debba essere bella ma essere disturbante, fare riflettere. "Attraversare i muri", il titolo dell'autobiografia, significa proprio questo: sfidarsi, andare oltre anche all'impossibile.
Scritto con stile essenziale, semplice ma diretto, quest'opera mostra una donna coraggiosa, valorosa, caparbia che non si fa abbattere da niente e che ha fatto della sua vita e del suo corpo un'opera d'arte.
LA SCRITTRICE:
Frasi dal libro "Attraversare i muri: un'autobiografia" di Marina Abramovic
Non esistono ostacoli insuperabili se si ha forza di volontà e se si ama ciò che si fa.
È incredibile come la paura venga costruita dentro di te dai tuoi genitori e dagli altri che ti circondano.
Ero sempre preda della vergogna e dell'imbarazzo. Da ragazza, non riuscivo a parlare con la gente. Adesso posso stare davanti a tremila persone senza appunti, senza una traccia di quello che dirò, anche senza materiali visivi di supporto e posso guardare negli occhi ciascun membro del pubblico e parlare per due ore senza fatica. Che cosa è successo? È successa l'arte.
Essere artisti significava avere l'immensa libertà di lavorare con qualunque cosa o con nulla.
Non sapevo e continuo a non sapere chi o cosa crei questo mondo invisibile ma so che può diventare totalmente visibile. Mi sono convinta che, quando moriamo, il corpo fisico muore ma la sua energia non scompare, semplicemente assume forme diverse.
Sono giunta a credere all'idea di realtà parallele. Penso che la realtà che vediamo ora abbia una certa frequenza e che essendo tutti sulla stessa frequenza ci possiamo vedere reciprocamente. Ma cambiare frequenza è possibile: significa entrare in una realtà diversa. E penso che ci siano centinaia di queste realtà.
Ciò con cui convive ciascuno di noi, il piccolo sé che siamo in privato, una volta che entriamo nello spazio della performance si colloca in un sé superiore e non siamo più noi stessi. Non è il "sé" che conosciamo, è qualcos'altro. Su quel palco era come se fossi diventata, contemporaneamente, il trasmittente e il ricevitore di un enorme flusso di energia. Non c'erano più né paura né dolore. Ero diventata una Marina che ancora non conoscevo.
Certe ferite che sembrano lievi possono avere conseguenze terribili per tutta la vita, mentre altre paiono gravi ma uno può continuare a vivere senza grossi problemi.
Droghe e alcool non mi avevano mai interessata. Non per questioni morali, semplicemente non avevano effetto su di me. Quello che vedevo e pensavo normalmente era già abbastanza strano senza offuscarmi la mente.
In molti momenti importanti della mia vita, quando si trattato di fare una scelta, ho lasciato decidere al caso: in questo modo, la tua energia non è più coinvolta e la decisione acquista una dimensione cosmica e non più personale.
Cerco sempre di dimostrare a tutti che posso farcela da sola, che posso uscirne intera, che non ho bisogno di nessuno. E questa è una maledizione, in un certo senso, perché sono sempre occupata a fare cose, a volte troppe, e perché spesso sono state lasciata sola (come in un certo senso desideravo) e senza amore.
A viaggiare si rimane giovani perché non si ha il tempo di invecchiare.
La conoscenza liquida: penso che la conoscenza universale sia ovunque attorno a noi. La questione è solo come poter arrivare a questo tipo di conoscenza perché la conoscenza è lì che aspetta solo di essere attinta. Devi solo escludere tutto il rumore che ti circonda. Per farlo, devi scaricare il tuo sistema di pensiero e la tua energia. Devi essere completamente scaricato, non deve rimanere più nulla. Il tuo cervello deve essere così stanco da non riuscire più a pensare. Ed è allora che subentra la conoscenza liquida.
Per raggiungere un obiettivo devi dare tutto fino a non avere più nulla. A quel punto l'obiettivo si realizzerà da solo. È il motto di ogni mia performance. Do ogni grammo di energia e poi le cose succedono, oppure no. Per questo non so retta alle critiche. Mi interessano solo quando so di non aver dato il cento per cento. Ma se si tutto, e a volte do anche il centodieci per cento, possono dire quello che vogliono.
I fallimenti sono molto importanti. Li trovo sempre molto significativi. Dopo un flop, entro un una profonda depressione in una parte oscura del mio corpo, ma presto torno alla vita, pronta a qualcos'altro. Se fai esperimenti è inevitabile sbagliare. Sperimentare significa andare in territori dove non sei mai stato, dove il fallimento è molto probabile. Bisogna avere il coraggio di affrontare l'ignoto.
mercoledì 3 maggio 2023
martedì 2 maggio 2023
"Uvaspina" Monica Acito (2023)
La scrittura è scorrevole, coinvolgente, con termini dialettali (come dicevo pocanzi), ma allo stesso tempo aulica e poetica: la descrizione del personaggio dell'Acquaiola, ad esempio, è puro lirismo. È molto brava in questo, l'autrice: sa introdurre i vari personaggi, con le loro caratteristiche e peculiarità, i loro pregi e i loro difetti, i loro tic e le loro manie, in modo da farti entrare da subito in confidenza con loro, soprattutto con la loro interiorità.
A parte qualche personaggio secondario (Nunzia Culo Stuorto, Teresa La Sciancata, la Puppina o la già citata Acquaiola, tanto per dirne alcuni), in linea di massima la narrazione ruota intorno ad un'unica famiglia, i Riccio.
Pasquale Riccio, il capofamiglia, è un notaio che è riuscito a laurearsi solo in quanto figlio di un uomo influente. È " 'na capa e lignamme" che "ten a capa pe sparter e recchie": più che fare il notaio, gli interessano i soldi, le belle donne e le sigarette. E poi le apparenze: dietro può fare le peggio schifezze, ma davanti cerca sempre di "acconciare tutte cose" per portare avanti l'immagine di buon padre di famiglia.
Il figlio maggiore di Pasquale e Graziella è il diciannovenne Carmine, detto Uvaspina, per una piccola voglia a forma di chicco d'uva che ha sin dalla nascita sotto l'occhio sinistro. È alto, smilzo, pallido pallido, con folti capelli neri. Uvaspina è omosessuale e ha movenze e fattezze effemminate, tanto che sia i compagni di classe che la sorella lo apostrofano definendolo "femminiello" e "ricchione". Anche i genitori sono a conoscenza della sua omosessualità ma fingono di non sapere, preferendo definire il ragazzo un po' strano piuttosto che ammettere che sia gay. A causa del suo carattere mansueto, timido ed insicuro, Uvaspina incassa i colpi senza reagire e trova rifugio al suo dolore e alla sua solitudine nelle poesie del defunto poeta Salvatore Di Giacomo.
La figlia minore di Pasquale e della Spaiata ha 17 anni e si chiama Filomena, detta Minuccia. Fisicamente molto simile al fratello, ma un po' più robusta e meno delicata e raffinata di lui, è lunatica, viziata, capricciosa, rancorosa ed irascibile. Non sa gestire la rabbia, compie atti autolesionistici, e quando le parte quello che viene definito lo "strummolo" (la trottola) le sale in corpo una forza che nemmeno sa di avere, ha delle reazioni scomposte, diventa violenta e rompe "tutte cose". E lo strummolo le parte spesso sia con sua madre ma, soprattutto, con Uvaspina con il quale ha, sin dall'infanzia, un rapporto viscerale e simbiotico, fatto di amore ed odio: lo ammira e lo detesta allo stesso tempo, lo ama sopra ogni cosa ma lo vorrebbe vedere morto. E il fatto che lui non reagisca alle sue angherie e si faccia "sfruculiare" senza fiatare la aizza ancora di più.
La sera di San Giovanni, il 24 Giugno, per le ragazze in età da marito, a Napoli è usanza fare il "chiummo" ovvero fare sciogliere del piombo in un recipiente d'acqua per vedere che forma assume, perché il "disegno" che ne uscirà fuori corrisponderà al lavoro del futuro sposo.
Apprestandosi a fare il chiummo ed essendo molto agitata, Minuccia si sfoga come sempre sul fratello, prendendolo in giro per la sua omosessualità, truccandolo, obbligandolo a vestirsi con abiti femminili e facendogli fare il chiummo prima di lei, come se fosse una ragazza in cerca di marito. Nella bacinella si forma l'immagine di una vela ma, quando Minuccia prova a smuovere le acque per fare cambiare forma al piombo e vedere il presunto lavoro del suo futuro marito, l'immagine non si muove, resta fissa sulla vela, mandandola in bestia perché si sente per l'ennesima volta inferiore al fratello. Così le parte lo strummolo e gli darà il tormento per tutta la notte.
Qualche giorno dopo, sfinito dai soprusi della sorella, Uvaspina si reca a fare un bagno nelle acque davanti al Palazzo Donn'Anna e qui, a causa del mare mosso, rischia di affogare. Viene salvato da due braccia possenti che fanno capo ad un paio di bellissimi occhi eterocromi, uno verde e l'altro marrone: gli occhi del pescatore Antonio, di cui Uvaspina si innamora perdutamente. Così come Antonio si innamora perdutamente di Uvaspina che, nell'intimità, chiama "criaturiello mio".
Ma questo nuovo, fortissimo, sentimento, non va forse a scontrarsi con quell'amore unico ed eterno che lui e Minuccia si sono implicitamente giurati sin da quando erano bambini ed erano l'uno il completamento dell'altra? E cosa dirà, quindi, Minuccia, quando lo scoprirà? Perché lo strummolo gira, gira e arriva ovunque. Niente può essere tenuto nascosto allo strummolo. E allora saranno dolori.
LA SCRITTRICE:
Frasi dal libro "Uvaspina" di Monica Acito
Il destino dell'uvaspina è lo stesso dalla notte dei tempi: essere spremuta, schiacciata e pestata per farci sciroppi che guariranno le malattie degli altri.
Uvaspina un giorno se lo era andato a cercare cosa era un "femminiello" e aveva capito tante cose. Aveva capito che i "femminielli", a Napoli, erano creature strane e dolcissime che sembravano venire da un etere fatto di sirene, vajasse e angeli piumati che non suonavano la lira ma un tamburello preso dalla strada. Aveva scoperto con un tuffo al cuore che i "femminielli" erano divinità terrene, certo, divinità di una mitologia fatta di vasci, vicarielli e chiese sconsacrate, ma i cui corpi sapevano muoversi e cambiare, addirittura figliare in un conturbante rito di fecondità. I "femminielli" erano pelle che stava stretta nella propria pelle e che per questo teneva 'e ppalle di cambiare; erano creature libere e metamorfiche che avevano gli stessi poteri di San Gennaro, la facoltà di mettere tutto sotto e ngoppa e di scatenare rivoluzioni contro le menti e le cattedrali.
I suoi compagni ormai lo avevano bollato, gli avevano messo la pellicola di quella parola addosso senza sapere nemmeno che stavano dicendo. Lo avevano rivestito come un salume nella rete del macellaio: quella pellicola gli si era avvolta addosso e lo aveva reso un animaluccio esotico, una specie di pantera in cattività che abitava a Chiaia. E quindi per tutti Uvaspina era "o'femminiello" e quella parola continuava a sgusciare nelle bocche dei compagni, che la alternavano con "ricchione" e in quelle parole racchiudevano tutta la loro paura e curiosità per ciò che non era ovvio, per chi osava avventurarsi oltre i confini netti e violenti tracciati dai genitori. In quegli insulti confusi i compagnelli trovavano l'unica libertà, l'unica trasgressione che Chiaia potesse concedere.
C'era un dolore sordo e oceanico che univa Uvaspina e la sorella, come se entrambi conoscessero la fonte da cui zampilla il sangue e che esiste dalla notte dei tempi. Tutti e due volevano qualcosa ma non riuscivano ad acchiapparla.
Uvaspina e Minuccia si guardarono più volte. Ogni parola tra quei due, muta o silenziosa che fosse, era più vera di ogni cosa.
Il problema tuo è che te ne stai sempre da solo. Si vede che non c'è nessuno che se ne fotte di te, si vede che soffri. Dico bene?
Uvaspina era tutto paura ed era la paura a dargli la forza.
Aveva pensato alla Spaiata perché forse quella chiagnazzara gli era sembrata una nota bella e selvatica in mezzo a quella gente ingessata che non bestemmiava mai: la Spaiata era un ciuffo di erba gramigna, il pistillo di un fiore nuovo e stregato, il corpo della città che si spogliava e si offriva a lui senza scuorno. La Spaiata era diversa da quella gente di latrina, era forcellara e campagnola, boschereccia e cittadina, spontanea come il mare decorato dalla spuma, chiagnazzara che gli aveva insegnato a piangere e a ridere per la prima volta.
Uvaspina capì che Antonio apparteneva a un altro regno, che non era quello umano ma forse nemmeno quello animale, era un regno in cui i cristiani si scambiavano sguardi con gli uccelli e s'intendevano e nel volo degli uccelli Antonio ci poteva leggere tutte le cose del creato.
Uvaspina aveva capito che l'inquietudine te la può calmare solo chi te l'ha messa in corpo.
Antonio veniva vicino a lui con i suoi capelli arruffati, gli dava una beccata sulla punta del naso e poi scendeva fino al labbro, gli apriva la bocca e Uvaspina lo baciava con gli occhi aperti perché voleva capire se stava sognando. Uvaspina non aveva più vergogna di poggiargli la testa sulle gambe. Non voleva sapere se Antonio era ricchione o meno, se sarebbe tornato da quella ragazza riccia e bella, voleva soltanto che continuasse a pizzicarlo col suo becco da pulcino perché in quei colpi di becco c'era la misura di tutta la felicità che aveva sempre avuto scuorno anche solo di immaginare.
Quell'uomo con un occhio lo incantava e con l'altro lo precipitava nell'Ade.
Uvaspina respirava l'odore del maschio che stava annidato sotto l'epidermide di Antonio: non era un odore umano ma una specie di premio e castigo che lui pensava di doversi meritare. Un nodo gli stringeva la gola e sentiva che quello che c'era dopo l'amore era ancora più grande del possedere e dell'essere posseduto, ancora più forte del desiderio e della sazietà.
Il morto chiamato Salvatore Di Giacomo, protetto dalla coltre della morte, aveva accarezzato la cresta dei pensieri nascosti di Uvaspina e aveva indovinato desideri che lui non si sentiva manco degno di avere. L'"ammore", l'amore di cui tutti si riempivano la bocca non era per quelli come lui, al massimo lui poteva pigliarsi gli avanzi, e gli veniva da chiagnere a pensare a quel "quanto mme sì custata", perché Antonio gli era costato, lo aveva pagato caro, lo aveva pagato in tanti anni ad accucciarsi come i cani randagi quelli soli e brutti che non vuole nessuno. Lui l'ammore non se lo meritava, l'ammore era solo degli altri, di quelli che andavano a mangiare insieme a Via Caracciolo e poi si abbracciavano sul lungomare con una cattiveria immane perché la felicità vista da fuori è crudele, ti colpisce come un manrovescio, uno schiaffo egoista che ti dice soltanto: "Tu no".
Ma sai che c'è? Quando ti trovi invischiato in certe situazioni poi non sai come uscirtene e quindi ci stai dentro e basta.
"Certo che sono tuo, lo sono stato da quando ti ho pigliato per un piede in mezzo al mare, che stavi per crepare". Antonio si sciolse come un bambino e Uvaspina lo volle di nuovo dentro di sé, perché Antonio era soltanto suo, e basta. Voleva tutto di lui ma soprattutto voleva le sue storie che gli facevano vedere il volto di Napoli. Quando Antonio gli entrava dentro, non era soltanto la sua carne a riempirlo, ma le storie di regine, le favole della città antica, dolce e maliziosa, il mare, i frutti sani e non spremuti. Perché quando Antonio se lo stringeva al petto come un bamboloccio, Uvaspina si sentiva intero: capiva il senso di quella voglia che aveva sotto l'occhio e che si portava appresso dal giorno in cui la Spaiata lo aveva sgravato. Uvaspina accettava di essere un frutto, un frutto buono non soltanto a essere strizzato, non soltanto a curare i dolori dell'altra gente. Finalmente Antonio aveva trovato il modo di tirargli fuori un balsamo nuovo, che gli ridava una scorza diversa e gli disegnava una pelle vera.
Sembrava che la sua vita fosse un insieme di quadri e cornici e dipinti e accozzaglie attaccati con lo sputo su una parete liscia. E ora tutto se ne stava carenn'abbascio. Da qualche parte, qualsiasi parte, da una sfaccimma di parte, bisognava iniziare a raddrizzare.
Perché il velo del sesso copriva tutto e condannava due persone a starsene appiccicate come calamite: si cominciava a dormire insieme dopo aver chiavato, poi a mangiare insieme, a figliare, e si finiva per tenersi la porta aperta a vicenda mentre si pisciava.
Voleva mettersi nella sua stanza da solo e jettare o'sango, senza dovere dare conto: a lui nessuno gli dava mai conto, e perché avrebbe dovuto farlo lui con gli altri?
Sentiva tutto come da dentro un acquario, chiuso nel suo dolore che non guardava in faccia a nisciuno. Perché il dolore era la cosa più egoista del mondo: andava vissuto da soli, per i cazzi propri, perché il dolore non è come il pane e,per quanto lo vuoi spartire con qualcuno, alla fine sei solo tu che te lo mastichi e te lo piangi.
Gli saliva qualcosa in gola, qualcosa di caldo che aveva il sapore acido dell'ingiustizia e dell'amore jettato nel cesso.
Tutti sono compagni, ma pochi sono gli amici.
Pensava che un uomo era finito quando nessuno gli poteva più chiedere i piaceri ma era solo costretto ad avanzarli agli altri.
Un fiotto di rabbia antica prese a scorrergli in quella parte segreta del corpo dove ci stavano i dispiaceri e le cose maltolte.
Desiderò di essere lui la sposa di Antonio, la spesa che avrebbe avuto per sempre tutto quel giacimento di storie, da mattina a sera: gli venne da piangere nel pensare che a Minuccia toccava la luce del giorno, mentre a lui sempre le fogne e le saittelle.
Un bruciante sentimento di vittoria e sconfitta insieme: forse quella era la misura di tutto l'amore.
Antonio c'era ma non c'era, era come certe isole che scompaiono all'orizzonte nei giorni di pioggia come quello: stanno là in mezzo al mare, ma non si fanno mai vedere bene.
La felicità vissuta a Napoli si paga a caro prezzo: più sei felice, più jetti o'sango, perché Napoli con una mano ti offre un po' di bene e poi se lo rimangia, se lo rimette in panza e non rimane manco un tozzo di pane.
L'uvaspina non era un'uva che poteva essere pestata per farne del vino, era soltanto una bacca che serviva per guarire e sopportare i dolori degli altri.
Nei lamenti delle donne come la Spaiata c'era qualcosa di poco umano: non c'era la donna, c'era la scrofa tenuta nel recinto, la cagna percossa dal padrone, la sacerdotessa, la mantide religiosa, la lavandaia, la puttana sguaiata che piangeva sulle ferite del corpo purulento e divino di Napoli, che continuava a spandere il suo tumore ovunque. Il morbo di Napoli si ficcava nelle case, nel reticolo delle strade, nel basolato, nelle bocche aperte della gente e nel velo di cipria posato sulle guance delle signore che piangevano, che pure a chiagnere ci volevano arte e sofferenza e la Spaiata lo sapeva meglio di tutti.
Della gente di mare non ci si può fidare perché si lamentano e ridono insieme, e anche il loro lamento alla fine diventa una presa per culo e una pernacchia.
Certi napoletani erano come i criaturi, avevano bisogno di credere in qualcosa. Se non li ammazzava il vulcano, li ammazzava la realtà.
La felicità non fa guardare in faccia a nessuno e quella amorosa è la felicità più crudele.