lunedì 8 maggio 2023

Recensione di "Attraversare i muri, un'autobiografia" di Marina Abramovic, sul canale YouTube Sapore di Libri

"Attraversare i muri: un'autobiografia" Marina Abramovic (2016)


 

LA TRAMA:
Nel 2010, in occasione della retrospettiva che il MoMA dedicò a Marina Abramovic, più di 750mila persone aspettarono in fila fuori dal museo per avere la possibilità di sedersi di fronte all'artista e di comunicare con lei senza dire una parola, in una performance senza precedenti durata più di settecento ore. Una celebrazione di quasi cinquant'anni di performance art rivoluzionaria. Figlia di genitori comunisti, eroi di guerra sotto il regime di Tito nella Jugoslavia postbellica, Marina Abramovic fu cresciuta secondo una ferrea etica del lavoro. Agli esordi della sua carriera artistica internazionale viveva ancora con la madre e sotto il suo totale controllo, obbedendo a un rigido coprifuoco che la costringeva a rincasare entro le dieci di sera. Ma nulla poté placare la sua insaziabile curiosità, il suo desiderio di entrare in contatto con la gente e il suo senso dell'umorismo. Tutto ciò che ancora oggi la contraddistingue e dà forma alla sua vita. Al cuore di «Attraversare i muri» c'è la storia d'amore con il collega perfomance artist Ulay: una relazione sentimentale e professionale durata dodici anni, molti dei quali passati a bordo di un furgone viaggiando attraverso l'Europa, senza un soldo. Un legame che arrivò al drammatico epilogo sulla Grande Muraglia cinese. La storia di Marina Abramovic, commovente, epica e ironica, parla di un'incomparabile carriera artistica che spinge il corpo oltre i limiti della paura, del dolore, dello sfinimento e del pericolo, in una ricerca assoluta della trasformazione emotiva e spirituale. Esso stesso performance, «Attraversare i muri» è la rappresentazione vivida e potente della vita di un'artista eccezionale.


IL MIO GIUDIZIO:
Se, solitamente, mi viene detto che metto tanto entusiasmo e passione per scrivere le mie recensioni, stavolta entusiasmo e passione saliranno fino alle stelle perché sono follemente affascinata da questa donna magnetica e fuori dal comune che risponde al nome di Marina Abramovic. Ho preso moltissimi appunti leggendo il suo libro perché c'è davvero tanto da raccontare su Marina e sulla sua vita così intensa e ricca di avvenimenti. Proprio per questo motivo, proprio perché le cose da dire sono svariate e non vorrei fare una recensione lunghissima, se interessati, vi invito a guardare la videorecensione (la potete trovare pubblicata qui nel blog oppure direttamente sul mio canale YouTube Sapore di Libri) dove andrò più in profondità e nel dettaglio, parlandovi non solo delle sue performance che mi hanno maggiormente colpito ma anche del rapporto con quelli che sono stati i suoi due più grandi amori, Ulay e Paolo Canevari, a loro volta artisti, così diversi fra loro ma così simili nel farla soffrire nonostante tutto l'amore e la dedizione che lei abbia loro riservato.

Brevemente, posso dirvi che "Attraversare i muri" è l'autobiografia di Marina, correlata di foto, dove l'artista ripercorre i suoi primi 70 anni (adesso ne ha quasi 76), mettendosi a nudo (letteralmente) fra arte, amore, famiglia e interiorità. Partendo dalla sua infanzia in una Belgrado sotto il regime comunista, figlia di due eroi di guerra che hanno combattuto da partigiani al fianco di Tito, con un padre affettuoso ma assente ed una madre fredda, violenta che l'ha educata all'ordine e alla disciplina, controllandola e privandola di ogni libertà; arriva a parlare della sua vita come performing artist. 

Con l'arte sfida il senso del pericolo mettendosi alla prova in performance assai pericolose sia a livello fisico che psicologico; usa il corpo come materia prima, lo spinge al massimo, oltre il limite della sofferenza, tanto che in molti, almeno inizialmente, più che dell' artista le danno della masochista, dell' esibizionista e della pazza. In questo le è di aiuto la sua profonda spiritualità, il suo credere nelle energie e la sua inimmaginabile capacità di concentrazione. Marina ritiene che l'arte non debba essere bella ma essere disturbante, fare riflettere. "Attraversare i muri", il titolo dell'autobiografia, significa proprio questo: sfidarsi, andare oltre anche all'impossibile.

Scritto con stile essenziale, semplice ma diretto, quest'opera mostra  una donna coraggiosa, valorosa, caparbia che non si fa abbattere da niente e che ha fatto della sua vita e del suo corpo un'opera d'arte.


IL MIO VOTO:
L'autobiografia di una delle donne più affascinante e magnetiche di questo mondo, una Donna con la D maiuscola, che ha vissuto di arte, facendo della sua vita stessa un'opera d'arte. Fra amori,  performances, sofferenze ed esperienze che vanno oltre immaginazione. Un libro intenso ed arricchente. Da leggere!


LA SCRITTRICE:





Frasi dal libro "Attraversare i muri: un'autobiografia" di Marina Abramovic

Non esistono ostacoli insuperabili se si ha forza di volontà e se si ama ciò che si fa.

È incredibile come la paura venga costruita dentro di te dai tuoi genitori e dagli altri che ti circondano.

Ero sempre preda della vergogna e dell'imbarazzo. Da ragazza, non riuscivo a parlare con la gente. Adesso posso stare davanti a tremila persone senza appunti, senza una traccia di quello che dirò, anche senza materiali visivi di supporto e posso guardare negli occhi ciascun membro del pubblico e parlare per due ore senza fatica. Che cosa è successo? È successa l'arte.

Essere artisti significava avere l'immensa libertà di lavorare con qualunque cosa o con nulla.

Non sapevo e continuo a non sapere chi o cosa crei questo mondo invisibile ma so che può diventare totalmente visibile. Mi sono convinta che, quando moriamo, il corpo fisico muore ma la sua energia non scompare, semplicemente assume forme diverse.

Sono giunta a credere all'idea di realtà parallele. Penso che la realtà che vediamo ora abbia una certa frequenza e che essendo tutti sulla stessa frequenza ci possiamo vedere reciprocamente. Ma cambiare frequenza è possibile: significa entrare in una realtà diversa. E penso che ci siano centinaia di queste realtà.

Ciò con cui convive ciascuno di noi, il piccolo sé che siamo in privato, una volta che entriamo nello spazio della performance si colloca in un sé superiore e non siamo più noi stessi. Non è il "sé" che conosciamo, è qualcos'altro. Su quel palco era come se fossi diventata, contemporaneamente, il trasmittente e il ricevitore di un enorme flusso di energia. Non c'erano più né paura né dolore. Ero diventata una Marina che ancora non conoscevo.

Certe ferite che sembrano lievi possono avere conseguenze terribili per tutta la vita, mentre altre paiono gravi ma uno può continuare a vivere senza grossi problemi.

Droghe e alcool non mi avevano mai interessata. Non per questioni morali, semplicemente non avevano effetto su di me. Quello che vedevo e pensavo normalmente era già abbastanza strano senza offuscarmi la mente.

In molti momenti importanti della mia vita, quando si trattato di fare una scelta, ho lasciato decidere al caso: in questo modo, la tua energia non è più coinvolta e la decisione acquista una dimensione cosmica e non più personale.

Cerco sempre di dimostrare a tutti che posso farcela da sola, che posso uscirne intera, che non ho bisogno di nessuno. E questa è una maledizione, in un certo senso, perché sono sempre occupata a fare cose, a volte troppe, e perché spesso sono state lasciata sola (come in un certo senso desideravo) e senza amore.

A viaggiare si rimane giovani perché non si ha il tempo di invecchiare.

La conoscenza liquida: penso che la conoscenza universale sia ovunque attorno a noi. La questione è solo come poter arrivare a questo tipo di conoscenza perché la conoscenza è lì che aspetta solo di essere attinta. Devi solo escludere tutto il rumore che ti circonda. Per farlo, devi scaricare il tuo sistema di pensiero e la tua energia. Devi essere completamente scaricato, non deve rimanere più nulla. Il tuo cervello deve essere così stanco da non riuscire più a pensare. Ed è allora che subentra la conoscenza liquida.

Per raggiungere un obiettivo devi dare tutto fino a non avere più nulla. A quel punto l'obiettivo si realizzerà da solo. È il motto di ogni mia performance. Do ogni grammo di energia e poi le cose succedono, oppure no. Per questo non so retta alle critiche. Mi interessano solo quando so di non aver dato il cento per cento. Ma se si tutto, e a volte do anche il centodieci per cento, possono dire quello che vogliono.


I fallimenti sono molto importanti. Li trovo sempre molto significativi. Dopo un flop, entro un una profonda depressione in una parte oscura del mio corpo, ma presto torno alla vita, pronta a qualcos'altro. Se fai esperimenti è inevitabile sbagliare. Sperimentare significa andare in territori dove non sei mai stato, dove il fallimento è molto probabile. Bisogna avere il coraggio di affrontare l'ignoto.

Ulay mi disse che frequentava una ricca americana.
"Perché non facciamo una cosa a tre?", gli chiesi. Questo per dire come ero caduta in basso...non dimenticherò mai quella notte per il resto della mia vita: Ulay e io facemmo sesso, molto brevemente, poi loro due scoparono davanti a me. E fu come se non esistessi. Anche io, per qualche ragione, avevo dimenticato di esistere. Mi ero sottoposta a tanto dolore che ormai non sentivo più nulla, ero priva di sensazioni.Eppure l'avevo fatto apposta: avevo dovuto mettere me stessa in quella situazione e procurarmi tutta quella sofferenza emotiva per liberarmene ed esorcizzare Ulay. Ce la feci ma a un costo molto alto. Mi sembrava di essere paralizzata, anestetizzata. Ma poi mi alzai, feci una doccia e me ne andai. In quel momento smise di piacermi il suo odore. E così capii che era finita.

Ripetere il mantra in continuazione ha un effetto stabilizzante sul corpo e sulla mente; sonno e veglia diventano indistinguibili; i sogni fluiscono nella realtà. E nel momento in cui entri in questo stato mentale, attingi a un'energia illimitata , a un luogo dove puoi fare ciò che vuoi. Non sei più un piccolo "io" con tutti i suoi limiti, la persona che piange come una bambina mentre si taglia affettando una cipolla. Quando si presenta questo tipo di libertà è come essere connessi a una coscienza cosmica.

Come sembra essere il destino di tutti i romantici, nulla era come lo avevamo immaginato.

Perché la realtà è che alla fine sei sola, qualunque cosa tu faccia.

Mai dare gli ostacoli per scontati. Bisogna affrontarli e vedere se è possibile superarli.

Come collaboratori e come amanti, Ulay e io eravamo stati insieme per 12 anni. Altri 6 mi sarebbero serviti per smaltire il colpo.

Vidi una gallina con i suoi pulcini e per me fu una rivelazione spirituale, un momento di gioia in mezzo a cesti pieni di polli fatti a pezzi. Ovviamente quella gallina sarebbe stata la prossima a finire in padella. Allora pensai:"È proprio così. Anche se ci capita di avere un breve momento di felicità, presto anche noi finiremo in padella".

Non è importante ciò che fate, è importante la condizione mentale con cui lo fate.

Sono stanca di cambiare aereoplano così spesso. Di aspettare in sale d'attesa, stazioni e aereoporti. Sono stanca di aspettare che mi controllino il passaporto. Shopping rapido in centro commerciali. Sono stanca di programmare la mia carriera, di inaugurazioni in musei e gallerie; di ricevimenti che non finiscono mai, di andare in giro con un bicchiere di acqua facendo finta di essere interessata alla conversazione. Sono stanca dei miei attacchi di emicrania, delle stanze d'albergo solitarie, del servizio in camera, delle telefonate intercontinentali, dei film orribili in televisione. Sono stanca di innamorarmi sempre dell'uomo sbagliato. Sono stanca di vergognarmi del mio naso troppo grande e del mio culo troppo grosso; stanca di vergognarmi della guerra in Jugoslavia. Voglio andare così lontano da non poter essere raggiunta da fax e telefonate. Voglio diventare vecchia, così vecchia da non preoccuparmi più di niente. Voglio capire e vedere chiaramente che cosa c'è dietro tutto questo. Voglio smettere di volere.

L'unica arte che mi interessa è quella in grado di cambiare l'ideologia della società. L'arte di chi insegue valori esclusivamente estetici è incompleta.

Hai fatto del tuo meglio, adesso non pensarci più, le cose andrà come dovranno andare. A volte facciamo tutto il possibile per ottenere qualcosa, ma è inutile perché le leggi cosmiche vanno in una direzione diversa.

Tutti noi dobbiamo arrenderci ai cambiamenti, e la morte è il più grande cambiamento di tutti.

Sì, siamo stati in guerra. Sì, siamo in mezzo a una grave crisi. Si, il paese è a pezzi. Eppure c'è energia e c'è speranza.

Ho sempre pensato che la morte dovrebbe essere una festa. Si entra in una nuova dimensione. È un passaggio radicale. I sufi dicono:" La vita è un sogno, la morte è risveglio".

A mio modo di vedere, siamo su questa Terra per uno scopo e lo dobbiamo realizzare.

Se gli animali vivono a lungo insieme, cominciano ad amarsi. Gli uomini, cominciano ad odiarsi.

Paolo se ne andò definitivamente. Impazzii. 
Mi mettevo a piangere nei taxi. Mi mettevo a piangere al supermercato. Scoppiavo in lacrime in mezzo alla strada. Non riuscivo a mangiare, non riuscivo a dormire. Ero a pezzi, ma che cosa potevo fare? Andai avanti.

Personalmente, disprezzo il suicidio. Penso sia il modo peggiore per lasciare la vita. Sono ardentemente convinta che se hai il dono di creare non ti è consentito ucciderti perché è tuo dovere condividere con gli altri questo dono.

Quando ripenso a tutto ciò che è successo fra me e Ulay e fra me e Paolo, spesso mi chiedo che parte ho avuto in ciascuna separazione. E non posso fare a meno di credere che il bisogno di essere amata e accudita, mai soddisfatto da mia madre, fu una ferita che portai nel mio rapporto con ogni uomo, qualcosa che nessuno di loro fu in grado di sanare.

Il mio ufficio è più una famiglia che un ufficio: tutti quelli che lavorano per me fanno parte della mia vita. Vanno in vacanza quando ne hanno bisogno, vanno a casa quando hanno finito il loro lavoro. Sono tutti responsabili di quello che fanno. Per fortuna ho dimenticato tutte le lezioni che la dittatura comunista cercò di insegnarmi.

Sembra che un artista debba sempre soffrire ma io avevo sofferto abbastanza nella vita.

Penso che sia essenziale includere la morte nella propria vita, pensarci ogni giorno. Non c'è idea più sbagliata di quella di essere permanenti. Dobbiamo capire che la morte può bussare in ogni momento, quindi bisogna essere pronti.

Ci sono 3 Marine: la Marina guerriera, la Marina spirituale e la Marina incasinata. Mi sono soffermata sulle prime due Marine mentre ho sempre cercato di tenere a bada la terza. La povera Marina che pensa di sbagliare tutto quello che fa; la Marina grassa e brutta che non è desiderata da nessuno. Quella che, quando è triste, si consola guardando brutto film, divora intere scatole di cioccolatini e mette la testa sotto il cuscino, facendo finta che i problemi non esistano.

La lucidità per me è essenziale anche se è piena di dolore.

Le cellule del nostro corpo sono dotate di memoria ed è possibile liberarle dai brutti ricordi, immettendo in esse una memoria diversa, come l'amore per se stessi.

Devi imparare ad amare te stessa, non posso farlo io al posto tuo, devi farlo da sola. Devi dare amore a te stessa. La memoria delle tue cellule deve essere riempita d'amore. Non devi fare altro. 

Devi sapere che non sei di questo pianeta. Il tuo DNA è di una lontana galassia. Sei venuta su questa Terra con uno scopo. Il tuo scopo è di aiutare gli esseri umani a vincere il dolore.

Forse, insieme, possiamo cambiare la consapevolezza e trasformare il mondo. E possiamo cominciare da qualunque parte.




martedì 2 maggio 2023

"Uvaspina" Monica Acito (2023)

 


LA TRAMA:
È nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come un pallido frutto incastonato nella pelle: Uvaspina si è abituato presto a essere chiamato con quel nome che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto, del resto, è capace di abituarsi: a suo padre, il notaio Pasquale Riccio, che si vergogna di lui; alla Spaiata, sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara non si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, abitata fin da bambina da un’energia che tiene in scacco il fratello con le sue esplosioni imprevedibili, le ripicche, la ferocia di chi sa colpire nel punto di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello.” Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco che rende la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi lineamenti nel sonno. Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti, dai quartieri protesi verso il cielo, dai tentacoli immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra. È proprio sul confine tra la città e il mare, tra la storia e il mito, che Uvaspina incontra Antonio, il pescatore dagli occhi di colori diversi, che legge libri e non ha paura del sangue, che sa navigare fino a Procida e rimettere al mondo un criaturo che dubita di se stesso. La purezza del loro incontro, però, non potrà nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna: la città li attira a sé, lo strummolo gira e il suo laccio unirà per sempre i loro destini. Una passione assediata dallo scherno e dallo scuorno. L’ambiguità dell’amore fraterno, la necessità dell’ombra perché ci sia luce. Infine una scrittura, quella della giovane Monica Acito, che sa inserirsi con originalità in una grande tradizione letteraria e, mescolando la forza tellurica del vernacolo alla freschezza di un racconto sulla giovinezza, invoca la fame di felicità che abita ciascuno di noi.


IL MIO GIUDIZIO:
"Uvaspina", romanzo d'esordio della scrittrice Monica Acito ed uscito sul mercato proprio il giorno del mio compleanno, il 22 Febbraio scorso, ci porta nel cuore di Napoli, quella Napoli allo stesso tempo magica e misteriosa, madre amorevole e matrigna crudele, abbondanza e miseria; con i suoi monumenti, le chiese, i palazzi antichi ma anche i vicoli bui e degradati, ogni luogo con le sue storie, le sue leggende, i suoi personaggi che siano re, regine o semplici pescatori che vivono alla giornata.
Sembra quasi di sentirlo l'odore del mare partenopeo, fra le pagine del libro: Napoli la si respira in ogni capitolo, in ogni frase, in ogni parola e, per chi non è pratico del dialetto, gli conviene tenere Wikipedia a portata di mano perché talvolta ci sono dei termini di non facile comprensione nemmeno per me, che il dialetto napoletano lo conosco quasi come l'italiano.

La scrittura è scorrevole, coinvolgente, con termini dialettali (come dicevo pocanzi), ma allo stesso tempo aulica e poetica: la descrizione del personaggio dell'Acquaiola, ad esempio, è puro lirismo. È molto brava in questo, l'autrice: sa introdurre i vari personaggi, con le loro caratteristiche e peculiarità, i loro pregi e i loro difetti, i loro tic e le loro manie, in modo da farti entrare da subito in confidenza con loro, soprattutto con la loro interiorità.

A parte qualche personaggio secondario (Nunzia Culo Stuorto, Teresa La Sciancata, la Puppina o la già citata Acquaiola, tanto per dirne alcuni), in linea di massima la narrazione ruota intorno ad un'unica famiglia, i Riccio.

Siamo più o meno negli anni '80: non ci sono riferimenti temporali ben definiti, sicuramente non è ambientato ai giorni nostri perché non fa riferimento né alla tecnologia attuale né agli smartphone. Ho dedotto che si trattasse degli anni '80 perché ad un certo punto nomina il "frisé" che è un tipo di acconciatura che andava di moda in quel periodo. 
La storia si svolge nell'arco di una stagione, da fine Giugno a fine Ottobre.

Pasquale Riccio, il capofamiglia, è un notaio che è riuscito a laurearsi solo in quanto figlio di un uomo influente. È " 'na capa e lignamme" che "ten a capa pe sparter e recchie": più che fare il notaio, gli interessano i soldi, le belle donne e le sigarette. E poi le apparenze: dietro può fare le peggio schifezze, ma davanti cerca sempre di "acconciare tutte cose" per portare avanti l'immagine di buon padre di famiglia.

Graziella Marino è la moglie di Pasquale ed è detta "la Spaiata" perché "in lei tutto è spaiato, dai denti ai pensieri". 
Originaria del quartiere Forcella, in gioventù era una "chiagnazzara" rinomata che "chiagneva e alluccava" ai funerali, con il rossetto rosso ben dipinto sulle labbra e la 5°di seno che sobbalzava ad ogni singhiozzo. Proprio al funerale del notaio Riccio senior, bella, prorompente, smaliziata e prosperosa come era all'epoca, subito dopo la funzione aveva accalappiato e sedotto il buon Pasquale. E ancora adesso, ormai donna borghese che abita nella zona bene di Chiaia, continua a fare la sceneggiata (ma per se stessa stavolta) fingendo di sentirsi male e stare per morire, ogni mercoledì sera, quando il marito, con la scusa della cena al circolo nautico, la lascia sola per andare a trastullarsi con altre donne.
È rozza, volgare, sguaiata e vajassa ma, in realtà, è il personaggio più bello e autentico di tutto il libro: è verace nella sua sguaiatezza ed è, fondamentalmente, una persona infelice che non si sente né amata né adeguata. Ha puntato tutto sul suo corpo e sulla sua bellezza e, adesso che la vede sfiorire, e si ritrova chiatta, con la ricrescita bianca in mezzo ai capelli e il fiato puzzolente per le troppe sigarette che fuma, cerca di riversare sui figli (sulla figlia in particolare modo) le sue attenzioni, non venendo, neppure qui, ricambiata. È una donna irrimediabilmente sola e triste pur nella sua teatralità.

Il figlio maggiore di Pasquale e Graziella è il diciannovenne Carmine, detto Uvaspina, per una piccola voglia a forma di chicco d'uva che ha sin dalla nascita sotto l'occhio sinistro. È alto, smilzo, pallido pallido, con folti capelli neri. Uvaspina è omosessuale e ha movenze e fattezze effemminate, tanto che sia i compagni di classe che la sorella lo apostrofano definendolo "femminiello" e "ricchione". Anche i genitori sono a conoscenza della sua omosessualità ma fingono di non sapere, preferendo definire il ragazzo un po' strano piuttosto che ammettere che sia gay. A causa del suo carattere mansueto, timido ed insicuro, Uvaspina incassa i colpi senza reagire e trova rifugio al suo dolore e alla sua solitudine nelle poesie del defunto poeta Salvatore Di Giacomo.

La figlia minore di Pasquale e della Spaiata ha 17 anni e si chiama Filomena, detta Minuccia. Fisicamente molto simile al fratello, ma un po' più robusta e meno delicata e raffinata di lui, è lunatica, viziata, capricciosa, rancorosa ed irascibile. Non sa gestire la rabbia, compie atti autolesionistici, e quando le parte quello che viene definito lo "strummolo" (la trottola) le sale in corpo una forza che nemmeno sa di avere, ha delle reazioni scomposte, diventa violenta e rompe "tutte cose". E lo strummolo le parte spesso sia con sua madre ma, soprattutto, con Uvaspina con il quale ha, sin dall'infanzia, un rapporto viscerale e simbiotico, fatto di amore ed odio: lo ammira e lo detesta allo stesso tempo, lo ama sopra ogni cosa ma lo vorrebbe vedere morto. E il fatto che lui non reagisca alle sue angherie e si faccia "sfruculiare" senza fiatare la aizza ancora di più.

La sera di San Giovanni, il 24 Giugno, per le ragazze in età da marito, a Napoli è usanza fare il "chiummo" ovvero fare sciogliere del piombo in un recipiente d'acqua per vedere che forma assume, perché il "disegno" che ne uscirà fuori corrisponderà al lavoro del futuro sposo.

Apprestandosi a fare il chiummo ed essendo molto agitata, Minuccia si sfoga come sempre sul fratello, prendendolo in giro per la sua omosessualità, truccandolo, obbligandolo a vestirsi con abiti femminili e facendogli fare il chiummo prima di lei, come se fosse una ragazza in cerca di marito. Nella bacinella si forma l'immagine di una vela ma, quando Minuccia prova a smuovere le acque per fare cambiare forma al piombo e vedere il presunto lavoro del suo futuro marito, l'immagine non si muove, resta fissa sulla vela, mandandola in bestia perché si sente per l'ennesima volta inferiore al fratello. Così le parte lo strummolo e gli darà il tormento per tutta la notte.

Qualche giorno dopo, sfinito dai soprusi della sorella, Uvaspina si reca a fare un bagno nelle acque davanti al Palazzo Donn'Anna e qui, a causa del mare mosso, rischia di affogare. Viene salvato da due braccia possenti che fanno capo ad un paio di bellissimi occhi eterocromi, uno verde e l'altro marrone: gli occhi del pescatore Antonio, di cui Uvaspina si innamora perdutamente. Così come Antonio si innamora perdutamente di Uvaspina che, nell'intimità, chiama "criaturiello mio".

Antonio e Uvaspina vivono il loro amore soprattutto negli anfratti del palazzo Donn'Anna, oppure sulla spiaggia libera di fronte a esso, che è situato a Posillipo, nome che etimologicamente significa "pausa dal dolore", ed è esattamente questo che Antonio significa per Uvaspina:una pausa dal dolore che lo tormenta da tutta la vita.
Il loro è un amore intenso e carnale, fatto non soltanto di sesso e sentimento ma anche di parole: Antonio è un pescatore ma è pure un lettore accanito e gli racconta tante storie e leggende su Napoli, da quella del palazzo Donn'Anna stesso, a quella di teschio con le orecchie nella chiesa di Santa Luciella, a quella di Nisida e Posillipo che non possono stare insieme ma hanno comunque una striscia di terra che li unisce. 
Con Antonio, Uvaspina mette da parte la timidezza e la remissività che lo contraddistinguono e si fa più deciso e audace, tira fuori la "cazzimma". Con lui Uvaspina da criaturiello diventa uomo.

Ma questo nuovo, fortissimo, sentimento, non va forse a scontrarsi con quell'amore unico ed eterno che lui e Minuccia si sono implicitamente giurati sin da quando erano bambini ed erano l'uno il completamento dell'altra? E cosa dirà, quindi, Minuccia, quando lo scoprirà? Perché lo strummolo gira, gira e arriva ovunque. Niente può essere tenuto nascosto allo strummolo. E allora saranno dolori.

Un romanzo intenso, a tratti crudo e straziante. Un romanzo, come dice anche la stessa autrice sulla fame d'amore: quello desiderato e quello negato. Un romanzo che si ha voglia di leggere tutto di un fiato per sapere come andrà a finire e cosa ne sarà di ognuno di loro.

Prima di concludere, devo fare una piccola postilla sull'autrice (giovanissima, appena 30 anni) che, oltre a scrivere dei ringraziamenti veramente originali, dedicando un pensiero a ogni singola persona citata, invece di fare una semplice lista di nomi come fanno molti, mi ha colpito per una domanda che, quando era piccola poneva quasi più a se stessa che a sua madre:"Perché sono nata con questa cosa della scrittura? Non potevo essere una bambina normale?".
Domanda che mi pongo anche io da 46 anni a questa parte ma, nel caso della Acito, posso tranquillamente dire che, se questi sono i risultati, ben venga"questa cosa della scrittura"!



IL MIO VOTO:
Un romanzo intenso, a tratti crudo e straziante ma che arriva al cuore. Sullo sfondo di una Napoli che, come sempre, ammalia e incanta. Da leggere, tutto d'un fiato!

LA SCRITTRICE:



Frasi dal libro "Uvaspina" di Monica Acito

Il destino dell'uvaspina è lo stesso dalla notte dei tempi: essere spremuta, schiacciata e pestata per farci sciroppi che guariranno le malattie degli altri.

Uvaspina un giorno se lo era andato a cercare cosa era un "femminiello" e aveva capito tante cose. Aveva capito che i "femminielli", a Napoli, erano creature strane e dolcissime che sembravano venire da un etere fatto di sirene, vajasse e angeli piumati che non suonavano la lira ma un tamburello preso dalla strada. Aveva scoperto con un tuffo al cuore che i "femminielli" erano divinità terrene, certo, divinità di una mitologia fatta di vasci, vicarielli e chiese sconsacrate, ma i cui corpi sapevano muoversi e cambiare, addirittura figliare in un conturbante rito di fecondità. I "femminielli" erano pelle che stava stretta nella propria pelle e che per questo teneva  'e ppalle di cambiare; erano creature libere e metamorfiche che avevano gli stessi poteri di San Gennaro, la facoltà di mettere tutto sotto e ngoppa e di scatenare rivoluzioni contro le menti e le cattedrali.

I suoi compagni ormai lo avevano bollato, gli avevano messo la pellicola di quella parola addosso senza sapere nemmeno che stavano dicendo. Lo avevano rivestito come un salume nella rete del macellaio: quella pellicola gli si era avvolta addosso e lo aveva reso un animaluccio esotico, una specie di pantera in cattività che abitava a Chiaia.  E quindi per tutti Uvaspina era "o'femminiello" e quella parola continuava a sgusciare nelle bocche dei compagni, che la alternavano con "ricchione" e in quelle parole racchiudevano tutta la loro paura e curiosità per ciò che non era ovvio, per chi osava avventurarsi oltre i confini netti e violenti tracciati dai genitori. In quegli insulti confusi i compagnelli trovavano l'unica libertà, l'unica trasgressione che Chiaia potesse concedere.

C'era un dolore sordo e oceanico che univa Uvaspina e la sorella, come se entrambi conoscessero la fonte da cui zampilla il sangue e che esiste dalla notte dei tempi. Tutti e due volevano qualcosa ma non riuscivano ad acchiapparla.

Uvaspina e Minuccia si guardarono più volte. Ogni parola tra quei due, muta o silenziosa che fosse, era più vera di ogni cosa.

Il problema tuo è che te ne stai sempre da solo. Si vede che non c'è nessuno che se ne fotte di te, si vede che soffri.  Dico bene?

Uvaspina era tutto paura ed era la paura a dargli la forza.

Aveva pensato alla Spaiata perché forse quella chiagnazzara gli era sembrata una nota bella e selvatica in mezzo a quella gente ingessata che non bestemmiava mai: la Spaiata era un ciuffo di erba gramigna, il pistillo di un fiore nuovo e stregato, il corpo della città che si spogliava e si offriva a lui senza scuorno. La Spaiata era diversa da quella gente di latrina, era forcellara e campagnola, boschereccia e cittadina, spontanea come il mare decorato dalla spuma, chiagnazzara che gli aveva insegnato a piangere e a ridere per la prima volta.


Uvaspina capì che Antonio apparteneva a un altro regno, che non era quello umano ma forse nemmeno quello animale, era un regno in cui i cristiani si scambiavano sguardi con gli uccelli e s'intendevano e nel volo degli uccelli Antonio ci poteva leggere tutte le cose del creato.

Uvaspina aveva capito che l'inquietudine te la può calmare solo chi te l'ha messa in corpo.

Antonio veniva vicino a lui con i suoi capelli arruffati, gli dava una beccata sulla punta del naso e poi scendeva fino al labbro, gli apriva la bocca e Uvaspina lo baciava con gli occhi aperti perché voleva capire se stava sognando. Uvaspina non aveva più vergogna di poggiargli la testa sulle gambe. Non voleva sapere se Antonio era ricchione o meno, se sarebbe tornato da quella ragazza riccia e bella, voleva soltanto che continuasse a pizzicarlo col suo becco da pulcino perché in quei colpi di becco c'era la misura di tutta la felicità che aveva sempre avuto scuorno anche solo di immaginare.


Quell'uomo con un occhio lo incantava e con l'altro lo precipitava nell'Ade.

Uvaspina respirava l'odore del maschio che stava annidato sotto l'epidermide di Antonio: non era un odore umano ma una specie di premio e castigo che lui pensava di doversi meritare. Un nodo gli stringeva la gola e sentiva che quello che c'era dopo l'amore era ancora più grande del possedere e dell'essere posseduto, ancora più forte del desiderio e della sazietà.

Il morto chiamato Salvatore Di Giacomo, protetto dalla coltre della morte, aveva accarezzato la cresta dei pensieri nascosti di Uvaspina e aveva indovinato desideri che lui non si sentiva manco degno di avere. L'"ammore", l'amore di cui tutti si riempivano la bocca non era per quelli come lui, al massimo lui poteva pigliarsi gli avanzi, e gli veniva da chiagnere a pensare a quel "quanto mme sì custata", perché Antonio gli era costato, lo aveva pagato caro, lo aveva pagato in tanti anni ad accucciarsi come i cani randagi quelli soli e brutti che non vuole nessuno. Lui l'ammore non se lo meritava, l'ammore era solo degli altri, di quelli che andavano a mangiare insieme a Via Caracciolo e poi si abbracciavano sul lungomare con una cattiveria immane perché la felicità vista da fuori è crudele, ti colpisce come un manrovescio, uno schiaffo egoista che ti dice soltanto: "Tu no".

Ma sai che c'è? Quando ti trovi invischiato in certe situazioni poi non sai come uscirtene e quindi ci stai dentro e basta.

"Certo che sono tuo, lo sono stato da quando ti ho pigliato per un piede in mezzo al mare, che stavi per crepare". Antonio si sciolse come un bambino e Uvaspina lo volle di nuovo dentro di sé, perché Antonio era soltanto suo, e basta. Voleva tutto di lui ma soprattutto voleva le sue storie che gli facevano vedere il volto di Napoli. Quando Antonio gli entrava dentro, non era soltanto la sua carne a riempirlo, ma le storie di regine, le favole della città antica, dolce e maliziosa, il mare, i frutti sani e non spremuti. Perché quando Antonio se lo stringeva al petto come un bamboloccio, Uvaspina si sentiva intero: capiva il senso di quella voglia che aveva sotto l'occhio e che si portava appresso dal giorno in cui la Spaiata lo aveva sgravato. Uvaspina accettava di essere un frutto, un frutto buono non soltanto a essere strizzato, non soltanto a curare i dolori dell'altra gente. Finalmente Antonio aveva trovato il modo di tirargli fuori un balsamo nuovo, che gli ridava una scorza diversa e gli disegnava una pelle vera.

Sembrava che la sua vita fosse un insieme di quadri e cornici e dipinti e accozzaglie attaccati con lo sputo su una parete liscia. E ora tutto se ne stava carenn'abbascio. Da qualche parte, qualsiasi parte, da una sfaccimma di parte, bisognava iniziare a raddrizzare.


Perché il velo del sesso copriva tutto e condannava due persone a starsene appiccicate come calamite: si cominciava a dormire insieme dopo aver chiavato, poi a mangiare insieme, a figliare, e si finiva per tenersi la porta aperta a vicenda mentre si pisciava.

Voleva mettersi nella sua stanza da solo e jettare o'sango, senza dovere dare conto: a lui nessuno gli dava mai conto, e perché avrebbe dovuto farlo lui con gli altri?

Sentiva tutto come da dentro un acquario, chiuso nel suo dolore che non guardava in faccia a nisciuno. Perché il dolore era la cosa più egoista del mondo: andava vissuto da soli, per i cazzi propri, perché il dolore non è come il pane e,per quanto lo vuoi spartire con qualcuno, alla fine sei solo tu che te lo mastichi e te lo piangi.

Gli saliva qualcosa in gola, qualcosa di caldo che aveva il sapore acido dell'ingiustizia e dell'amore jettato nel cesso.

Tutti sono compagni, ma pochi sono gli amici.

Pensava che un uomo era finito quando nessuno gli poteva più chiedere i piaceri ma era solo costretto ad avanzarli agli altri.

Un fiotto di rabbia antica prese a scorrergli in quella parte segreta del corpo dove ci stavano i dispiaceri e le cose maltolte.

Desiderò di essere lui la sposa di Antonio, la spesa che avrebbe avuto per sempre tutto quel giacimento di storie, da mattina a sera: gli venne da piangere nel pensare che a Minuccia toccava la luce del giorno, mentre a lui sempre le fogne e le saittelle.

Un bruciante sentimento di vittoria e sconfitta insieme: forse quella era la misura di tutto l'amore.

Antonio c'era ma non c'era, era come certe isole che scompaiono all'orizzonte nei giorni di pioggia come quello: stanno là in mezzo al mare, ma non si fanno mai vedere bene.

La felicità vissuta a Napoli si paga a caro prezzo: più sei felice, più jetti o'sango, perché Napoli con una mano ti offre un po' di bene e poi se lo rimangia, se lo rimette in panza e non rimane manco un tozzo di pane.

L'uvaspina non era un'uva che poteva essere pestata per farne del vino, era soltanto una bacca che serviva per guarire e sopportare i dolori degli altri.

Nei lamenti delle donne come la Spaiata c'era qualcosa di poco umano: non c'era la donna, c'era la scrofa tenuta nel recinto, la cagna percossa dal padrone, la sacerdotessa, la mantide religiosa, la lavandaia, la puttana sguaiata che piangeva sulle ferite del corpo purulento e divino di Napoli, che continuava a spandere il suo tumore ovunque.  Il morbo di Napoli si ficcava nelle case, nel reticolo delle strade, nel basolato, nelle bocche aperte della gente e nel velo di cipria posato sulle guance delle signore che piangevano, che pure a chiagnere ci volevano arte e sofferenza e la Spaiata lo sapeva meglio di tutti.

Della gente di mare non ci si può fidare perché si lamentano e ridono insieme, e anche il loro lamento alla fine diventa una presa per culo e una pernacchia.

Certi napoletani erano come i criaturi, avevano bisogno di credere in qualcosa. Se non li ammazzava il vulcano, li ammazzava la realtà.

La felicità non fa guardare in faccia a nessuno e quella amorosa è la felicità più crudele.